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INCIPIT (inizia il tuo racconto con la descrizione di questo personaggio)

Le istruzioni sono:

L’uomo era alto e così magro che sembrava sempre di profilo. La sua pelle era scura, le ossa sporgenti e gli occhi ardevano di un fuoco perpetuo.


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L'ispettore

L’uomo era alto e così magro che sembrava sempre di profilo. La sua pelle era scura, le ossa sporgenti e gli occhi ardevano di un fuoco perpetuo. Le mani spuntavano dalle maniche del maglione nero a collo alto ed erano ossute, una reggeva una grande borsa di pelle. Sotto un vero diluvio, non aveva né ombrello né impermeabile e io ricordo che lo incrociai nella scarsa luce di un lampione stradale, mentre mi dirigevo al bar del Golem.
Magari “bar” è una parola grossa, parliamo di una baracca di pescatori adattata alla meno peggio, sulla spiaggia, ma il tanfo del pesce c’era ancora; quello, una volta penetrato nel legno delle travi, non se ne va. Ma a noi non aveva mai dato fastidio, almeno fino a quella sera… già, qella sera: non sarei dovuto uscire, stavo proprio male; cerchio alla testa, mal di gola, febbre a trentotto. Se aggiungiamo il tempo da lupi, con vento e pioggia, stare in casa e farmi una bella dormita sarebbe stata la cosa più saggia, anzi fondamentale… ma non potevo ancora saperlo.
Per noi, lo scopone del venerdì era sacro; per farci saltare l’appuntamento con le francesine che ci aspettavano sul tavolino, tutte vogliose di essere smazzate per bene, ci voleva qualcosa di più di un pò’ di febbre e un acquazzone. I miei tre amici erano certamente già al bar per la partita: di farli dirottare sul tressette col morto non se ne parlava nemmeno!
Mi strinsi ancora di più la giacca a vento e allacciai stretti i cordoni del cappuccio: quella figura apparsa per un momento sulla mia strada mi aveva fissato per qualche secondo, uno sguardo che, senza una ragione razionale, mi aveva dato un brivido. Ma la mia meta era vicina e, in pochi minuti, la compagnia dei quattro, Mugugno, Campacavallo, Stecca e Cacciaballe, che sarei io, era al completo, seduta con le carte in mano.
Inutile spiegare perché Mugugno si chiamava così, avete presente il nano Brontolo? Campacavallo era una persona eccezionale ma guai a chiedergli di fare qualcosa alla svelta. Stecca, oltre a essere magrissimo, al biliardo ci sapeva fare sul serio. Quanto al Cacciaballe beh, magari quando bevo un bicchiere in più tendo a esagerare un poco, ma da parecchio andavo a minerale; colpa dell’ulcera e del dottore che mi aveva messo addosso una bella fifa: “Bevi, bevi, che poi le balle le vai a raccontare a Belzebù, è lì che ti aspetta per metterti il forcone su per il culo, e non manca molto se non mi dai retta”.
Eravamo lì al bar a giocare sì e no da un quarto d’ora, quando un tuono, uno di quelli che sembrano voler buttare giù il muro, esplose in contemporanea col fulmine. Dalla finestra entrò come un bagliore di mille flash tutti insieme. Più tardi si accertò che si era abbattuto sul lampione stradale a pochi metri da noi.
Le luci si spensero senza pensarci nemmeno un istante, il ronzio del frigo si azzittì e la radio dietro al bancone decise di fare la stessa cosa.
Credo che, per legge, nei locali pubblici ci debba essere una lampada d’emergenza; sino a qualche mese prima c’era, sul soffitto, una scatola bianca con una lucina rossa, doveva proprio essere quella, poi una sera qualcuno un po’ fuori di testa si era divertito a farci il tiro a segno con un bicchiere. Per la solita fortuna degli ubriachi, aveva fatto centro e da allora nessuno si era preso la briga di ripararla.
Così, buio pesto.
«Stecca, non approfittare per cambiarti le carte.» Campacavallo lo conosceva bene Stecca, erano amici dalle elementari.
«Mavaffanculo, Campa, non vedrei nemmeno il sedere di tua sorella che ce l’ha come una lavatrice, figurati le carte!»
«Golem, ce l’hai una candela?» chiesi ad alta voce. Lo chiamavano così il proprietario, un omone grosso, tozzo e pelato; pareva un ammasso di argilla bagnata, con dei buchi in alto, per simulare una faccia, mentre tutto il resto era informe e ballonzolante. Gli mancava solo la frase “Dio è verità “ scritta in fronte, ma per lui sarebbe stata più adatta “In vino veritas”.
Senza parlare, asciugandosi il naso col dorso della mano, un Golem maledettamente raffreddato portò al tavolo una torcia elettrica e poi, tornato al suo posto, accese una candela e la posò sul bancone.
Sentimmo cigolare la porta e i passi di qualcuno che entrava insieme al rumore del mare. Stecca prese la torcia e la puntò verso l’ingresso.
«… sera» disse il tizio, con una voce grondante acqua come i suoi vestiti.
«Buonasera a lei» rispose Stecca a nome di tutti, riuscendo appena a nascondere la curiosità.


Già, perché il nuovo arrivato era proprio quella strana persona che avevo incrociato lungo la strada e, visto alla luce della torcia puntata addosso, poteva passare inosservato come un senegalese nudo al raduno del Ku-Klux-Klan.
Ciò che attirava lo sguardo non erano tanto gli occhi, dove spiccavano quelle pupille rosse come tizzoni ardenti. E non era nemmeno la chioma di un bianco quasi trasparente, almeno dove c’era ancora, visto che scendeva sulle spalle partendo solo dai lati del cranio. E nemmeno la pelle flaccida e senza traccia di barba.
Era tutto l’insieme che dava a quell’uomo un’aura d’inquietante diversità.
«Una grappa per favore, anzi mi dia la bottiglia.» disse ad alta voce rivolto al Golem.
Ci guardammo in silenzio mentre il barista metteva sul banco un bicchiere e la bottiglia di Nardini.
«Porti dei bicchieri a quei signori al tavolo. Se non vi offendete » si rivolse a noi «offro un giro.»
Io mandai a quel paese, ma sottovoce, il mio dottore e rifiutai, gli altri accettarono allegramente, ringraziando.
Lo sconosciuto si avvicinò al tavolo con la bottiglia in mano e riempì i bicchieri.
«Alla vostra » disse, e trangugiò il suo in un fiato. «Vi disturba se osservo mentre finite la mano?»
Aveva offerto da bere, non che per questo avesse acquisito un diritto, ma insomma, se voleva guardarci giocare non ci disturbava più di tanto, purché non iniziasse a chiacchierare.
Prese una sedia e si piazzò dietro a Stecca, che quella sera era il mio compagno; quindi io lo potevo vedere bene: anche da seduto sovrastava di tutta la testa il mio amico, che pure non era un piccoletto.
Dopo qualche minuto in silenzio, l’uomo si chinò, aprì la borsa e ne trasse un oggetto che identificai come un’agenda, anche se insolitamente alta. Mi domandai cosa ne dovesse fare, assistendo a una partita di scopone.
L’uomo iniziò a trafficare, voltando rumorosamente pagine e pagine. Notai che il suo sguardo passava alternativamente dai fogli a noi e ciò m’incuriosì. Distolsi l’attenzione dalle carte e mi misi a fissarlo. Gli altri se ne accorsero e a loro volta si voltarono per osservare cosa stesse accadendo.
Lo sconosciuto si stava concentrando su di una pagina, poi sembrò rilassarsi, sorrise tra sé e finalmente parve accorgersi dei nostri sguardi. Indicando il foglio, si rivolse a noi puntando quegli occhi rossi, a turno, su ciascuno.
«Eccovi, signori Mugugno, Stecca, Campacavallo, Golem... qualcosa non andava, ne mancava uno ma ora è tutto chiaro.»
A parte che solo tra noi potevano chiamarci con quei soprannomi, cosa voleva dire “ne mancava uno”? Mancava da cosa?
Ci guardammo più incuriositi che arrabbiati, a parte Golem che continuava impassibile ad asciugare bicchieri e a soffiarsi il naso, e si sperava che almeno usasse due stracci diversi.
Alla fine, visto che gli ero di fronte, fui io a parlare.
«Cosa vuol dire esattamente?»
«Quello che ho detto, ne mancava uno… vediamo, chi di voi è Cacciaballe?»
Chiusi le carte che ancora avevo in mano, posai il mazzetto sul tavolo e gli dissi, il più gentilmente possibile: «Sono io, ma nessuno mi chiama così se non è un mio amico, lei non lo è e non credo che lo diventerà; e poi, come li sa questi nomi?»
Non si offese, anzi sorrise, ma di un sorriso che metteva freddo, vi assicuro.
«Ma è ovvio, sono venuto per accertarmi che tutto fosse in ordine, i vostri nomi sono tutti qui. Tutti tranne il suo, quello ho dovuto andare a cercarlo più avanti, in un altro archivio.»
Va bene il Grande Fratello, ma essere in un qualsiasi archivio di uno sconosciuto mi dava sui nervi, e credo che i miei amici la pensassero come me.
«E a cosa dobbiamo la sua attenzione, cosa vuole da noi?»
«Vi spiegherò tutto ma ora non c’è tempo. Come le ho detto, lei non c’è, quindi io e lei dobbiamo uscire, subito.»
Pareva improvvisamente molto nervoso. Ma a me non piaceva ricevere ordini.
«E dove dovremmo andare? Io sto benissimo qui, coi miei amici.»
«Lei deve uscire e basta! » un attimo di esitazione, probabilmente dalla mia espressione aveva capito che non ero per nulla d’accordo. «Va bene, se le dicessi che io so cosa è successo a suo padre, ma che ne posso parlare solo fuori di qui, verrebbe?»
Mio padre, cosa ne sapeva di mio padre? Un giorno di molti anni prima era sparito.
Si disse che, da bravo giornalista, seppure di un foglietto locale che leggevano sì e no un migliaio di persone, avesse ficcato il naso dove non doveva, ma rimasero solo voci: nessuno trovò mai nulla di lui. Mia madre, povera donna, morì senza aver potuto mettere un fiore sulla sua tomba.
Dovevo essere impallidito e aver perso le mie certezze, lui se ne accorse e mi spinse verso la porta sotto lo sguardo stupito dei miei amici.
Fuori, quasi trascinato dallo sconosciuto, percorsi una trentina di metri prima di accorgermi di due cose: non pioveva più e la luce era tornata ovunque, tranne che nel bar, ancora immerso nell’oscurità. Non feci in tempo a ragionare su quella stranezza che il mondo mi esplose intorno. Anzi, il bar esplose, proprio come si vede nei film. Mi sentii sollevare da terra per poi ricadere a peso morto sulla strada. Rammento che non persi conoscenza subito, o almeno così credo. Ho il ricordo dello sconosciuto chino su di me, che mi sussurrava qualcosa su mio padre, poi svenni per risvegliarmi soltanto qui, all’ospedale.
Un braccio e due costole fratturate, contusioni ovunque ma mi è andata bene, soprattutto pensando ai miei amici e al barista: nessuno ce l’aveva fatta.
Ho chiesto dell’uomo che era con me: i dottori prima, e i poliziotti dopo, mi hanno guardato come fossi matto. Nessuno lo aveva visto, prima o dopo lo scoppio, vivo, morto o ferito che fosse.
Hanno detto gli esperti che c’era stata una fuga dalla bombola tenuta sotto il bancone, in spregio a ogni norma di sicurezza. L’odore di pesce, e forse il raffreddore di Golem, avevano coperto quello del gas. Raggiunta una certa concentrazione, la fiammella della vicina candela aveva innescato lo scoppio. Una sciagura facilmente evitabile, se il proprietario del bar non fosse stato così imprudente.
Sarà, io sono Cacciaballe e quando ho detto che tutto era già scritto in un una grossa agenda, nessuno mi ha creduto.
Ma quando arriverà l’esito dell’esame del DNA sul corpo ritrovato proprio dove ho detto di cercare, voglio vedere che spiegazione daranno.




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Scrittura creativa scritta il 29/05/2016 - 05:13
Da mario malgieri
Letta n.1075 volte.
Voto:
su 3 votanti


Commenti


Complimenti! Mi è piaciuto davvero tanto. Scorrevole, divertente, ben scritto, per nulla melenso e scontato. Tiene avvinti dalla prima all'ultima parola. Ottime descrizioni e il giusto numero di parole per dire e lasciare spazio all'intuizione. Molto molto ben fatto. Bravissimo Mario!

Cristiana Majone 13/04/2017 - 08:57

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Bel racconto! Complimenti!!

patrizia brogi 29/05/2016 - 14:19

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Un racconto gustoso e gradevole nello stile che mi piace. Bella fantasia nel creare la storia e i nomi giusti dati ai personaggi ne rallegrano la scena.
Letto d'un fiato. Complimenti.
Salvo

salvo bonafè 29/05/2016 - 09:48

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