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Il prestito

Quando i Cimbri, sconfitti da Roma agli albori della sua grandezza, si ritirarono sull’altopiano per fondarvi una piccola federazione, mai avrebbero potuto immaginare il remoto destino dei loro sette insediamenti.
“Sette Comuni” divenne il nome col quale, ancor’oggi, è conosciuto l’altopiano.
Se pochi ricordano l’origine del nome, la sua notorietà è invece legata a un tragico primato: l’altopiano detto “dei sette comuni”, è il luogo dove più a lungo di ogni altro, in Italia, infierì la Grande Guerra.
Tutto ebbe inizio il 24 maggio 1915.
Forse il Piave mormorava calmo e placido, come ricorda la famosa canzone, di sicuro alle 4,00 di quel mattino, tuonava una batteria di mortai da 280, piazzati nel forte Verena, a nord-ovest di Asiago.
Furono i primi colpi d’artiglieria italiani diretti verso il territorio austriaco.
A quei tiri ne seguirono troppi altri, dall’una e dall’altra parte, portando alla devastazione gli sventurati borghi dell’altopiano, che ne fu crivellato, sfigurato per sempre. Alla fine del conflitto, si calcolò che su quel territorio esplose oltre un milione di proiettili d’artiglieria di ogni calibro.
Ortigara, Valbella, Cima dodici, il vicino Monte Grappa e molti altri, sono nomi forse di scarsa importanza geografica ma incisi nel profondo della memoria collettiva degli Italiani e dei loro nemici di allora.
Quei nemici, a un anno dall’entrata in guerra dell’Italia, scelsero di attaccare a fondo le nostre linee proprio sull’altopiano.
Tra maggio e giugno 1916, la sanguinosa “straffe-spedition” aveva portato l’esercito italiano a un passo dalla disfatta. Gli Austro-Ungarici già intravvedevano le brume della pianura veneta oltre le ultime difese, sull’orlo meridionale dall’altopiano. Poi, come un branco di lupi che, inseguiti dai cacciatori, si rivoltano, mordono alle caviglie e saltano alla gola degli inseguitori, gli italiani avevano attaccato con la forza della disperazione.
Sorpresi dalla controffensiva, i nemici stavano arretrando e i combattimenti infuriavano appena oltre la linea che aveva segnato il limite dell’avanzata dell’esercito austro-ungarico.


Alle sedici del 5 giugno, il soldato semplice Vittorio Obialero, un ragazzone nemmeno ventenne, si aggiustò l’elmetto, controllò per la terza volta il moschetto e la baionetta, ma non poteva controllare i battiti del proprio cuore che stavano accelerando, quasi impazziti. Il frastuono delle artiglierie si era placato; il soldato si asciugò il volto, bagnato da una pioggerella insistente. L’acqua che si raccoglieva nel vallone soprastante colava oltre il bordo della trincea. Il soldato cercò di ignorarne il colore, ma quella sfumatura di rosso era agghiacciante. Osservò il tenente alla sua destra: aveva impugnato la pistola e stava per dare l’ordine di lanciarsi all’assalto.
A meno di duecento metri, in alto, dalle postazioni sulla sella, i mitraglieri austriaci erano pronti, il caricatore inserito nelle micidiali Schwartzlose M1907. Il terreno roccioso del colle dell’Agnella era cosparso di resti umani, unico frutto dei precedenti assalti italiani; eppure quei soldati insistevano. Gli austriaci non potevano fare a meno di provare timore e quasi rispetto per il loro valore ma, ancora una volta, erano pronti a farne strage. Non solo perché era il loro dovere, ma per la certezza, inculcata dai loro ufficiali, che se non fossero riusciti a fermarli per loro non ci sarebbe stato scampo: dopo quella strage, gli italiani non avrebbero fatto prigionieri.
Nella trincea sottostante, il tenente urlò l’ordine e diede l’esempio, uscendo per primo allo scoperto.


Il massiccio dell’Ortigara era diventato uno dei campi di battaglia più contesi e insanguinati. Per questo motivo, sul suo versante meridionale si era insediato un ospedale da campo del Corpo di Sanità del Regio Esercito.
La notte del 10 Giugno, come molte delle precedenti, era stata un incubo, con centinaia di corpi martoriati portati faticosamente e pericolosamente all’ospedale per un soccorso il più delle volte inutile. La giornata che stava iniziando, quasi invernale per la pioggia tagliente e le raffiche impetuose di vento, si annunciava altrettanto tragica.
Il Capitano comandante l’ospedale, dottor Carbonari, si era appena lasciato cadere sulla brandina, spossato dopo una quindicina di ore di lavoro, e stava tentando di prendere sonno.
«Dottore, questa volta lo ha addirittura messo in versi!».
L’infermiera fece irruzione nella tenda. Sventolava un foglio di quaderno sgualcito, segnato da una scrittura a matita dai caratteri incerti.
«Di cosa sta parlando? Chi ha messo in versi cosa?» La voce del dottore era stanca e irritata.
«Mi scusi, dottore, parlo di Obialero, quel ragazzo amputato alla gamba destra quattro giorni fa. Il suo incubo ricorrente, lo ha messo in versi, ne ha fatto una poesia.».
Il dottore sospirò, prese in mano il foglio, alzò la luce della lampada a petrolio, si mise sul naso gli occhialini che teneva sempre appesi al collo assieme allo stetoscopio e iniziò a leggere a voce alta.


«Lassù all’Agnella vessilli laceri
ardon, mani di mille e mille martiri
supplici all’oscuro ciel si tendon:,
eroi, qual ne sia l abito.


Correvo, e del cor sentivo i palpiti,
colpito tra l’erba caddi selvatica,
fuggivan tra le pietre sangue e lacrime
con lor la vita, rapida.


Sfiorò leggera il viso, carezzevole
mano di donna antica, chioma candida.
“quant’alme ancor trarrò, miseri giovani
a lor destino ultimo?


Della tua oggi ancor ti lascio prestito
ma rammenta che brevi i giorni corrono”.
Placato, scese dolce calma all’anima
dal troppo dolor lacera.»


Il dottore, che aveva sempre amato la letteratura ed era un uomo dalle molte letture, non poté trattenere un sorriso.
«Guarda guarda, versi sdruccioli, un po’ come quelli del Carducci, versi “barbari” come li chiamava lui. Il soldatino sa di poesia! Certo, molto scolastici, la metrica mi pare difetti qua e là, ma insomma, il ragazzo deve avere studiato.».
L’infermiera era rimasta in silenzio e sembrava commossa.
«Il ragazzo ha fatto il ginnasio a Torino, me lo ha detto lui ieri. Mi ha anche confidato che per venire a combattere falsificò la firma di suo padre. Quando si presentò volontario non aveva ancora compiuto diciotto anni.».
«Ah, uno di quei ragazzi idealisti!» Il dottore scosse il capo «ma cosa c’è di preoccupante, oltre alla metrica incerta di questa poesia?»
L’infermiera sembrava offesa dall’apparente indifferenza del dottore.
«Non vede? Non fa che parlare della morte. Dice che la sua vita è solo in prestito. Lo dice a tutti quelli che gli stanno vicino. Il morale degli altri pazienti ne risente. Dottore, cosa possiamo fare? ».
L’infermiera ebbe per risposta un gesto d’impotenza e un congedo con un cenno stanco della mano.
«Ci sono molti altri pazienti che hanno bisogno di lei, queste sono sciocchezze, comunque ci penserò.».
Uscita l’infermiera, il dottore riprese il foglietto e rilesse la poesia. Naturalmente sapeva dello scontro al colle dell’Agnella. Uno dei tanti massacri di quei giorni: in poche ore erano caduti quasi cinquemila italiani e un numero imprecisato, ma certo paragonabile, di soldati imperiali. Nel suo ospedale ne aveva a decine provenienti da quel disgraziato colle, e aveva visto anche gli effetti del gas, arma vile impiegata dagli austriaci messi alle strette. Ma non erano cose che si potessero scrivere, magari nelle lettere a casa.
Piegò il foglio e lo ripose in una tasca «Se questa poesia dovesse capitare tra le mani di qualche ufficialetto zelante e carogna, il mio soldatino potrebbe finire addirittura alla Corte Marziale per disfattismo e fraternizzazione col nemico, cose da fucilazione. Io lo salvo, beh diciamo che aiuto Dio a salvarlo, e qualcuno me lo ammazza? Neanche a parlarne. Però l’infermiera ha ragione, per il morale degli altri può diventare un problema. Sarà opportuno che ci parli un poco io, col soldatino.»
Il dottore si mise a frugare tra le carte sparse sul rozzo tavolo di legno, alla ricerca dei pochi appunti che aveva avuto il tempo di scrivere. Si ricordava bene di quel ragazzo, ma voleva essere certo dei fatti.
Qualcosa di abbastanza singolare era effettivamente accaduto.
C’era stata una pausa nella battaglia furibonda sull’Ortigara. Come altre volte, una scintilla d’umanità si era accesa, sotto forma di una tregua non scritta per il recupero dei feriti e la pietosa raccolta delle vittime.
Quando i barellieri avevano portato quel soldato, l’ospedale era già traboccante di sangue e dolore.
Il dottore aveva osservato rapidamente le sue condizioni. La gamba destra era stata quasi strappata al di sopra del ginocchio. La vena femorale tranciata aveva causato un’imponente emorragia che tuttavia, per qualche ragione, si era arrestata. Calcolando che dovevano essere passate ore dal momento del ferimento a quando i barellieri erano riusciti a scendere a valle, non potevano esserci speranze. Tuttavia, per scrupolo professionale, lo aveva auscultato e controllato le pupille. Incredibilmente c’erano ancora dei segni vitali. Aveva ordinato di mettere il poveretto sul tavolo operatorio, poi aveva fatto del suo meglio, completando l’inevitabile amputazione, suturando e ripulendo. Infine, aveva affidato il ragazzo a Dio e alla forte fibra della quale aveva dato prova.
Fosse stato l’intervento divino o, più probabilmente il fisico robusto, nei giorni seguenti il ragazzo aveva fatto enormi progressi. Il rischio della cancrena era scongiurato, la ferita era sana e asciutta, la febbre calata. Il soldato era lucido e presente ma, dal suo risveglio, erano iniziati ad arrivare i rapporti allarmati dell’infermiera.
Il paziente pareva avviato a un’insperata guarigione, sebbene le conseguenze di quel ferimento sarebbero rimaste nella sua vita per sempre. Eppure intristiva, parlava sempre del suo incontro con la Morte, dell’avere in prestito ogni ora che stava vivendo. Molto presto, ripeteva ossessivamente, la Morte sarebbe tornata a pretendere ciò che gli aveva prestato. Fino alla poesia di quel pomeriggio. Il dottore decise che la mattina dopo, prima del consueto giro tra i pazienti, gli avrebbe parlato.


L’indomani, di buon ora, era al capezzale del ragazzo. Lo osservò per qualche minuto. Dormiva di un sonno inquieto, ogni tanto atteggiava le labbra come per urlare, poi si quietava, ma le mani erano contratte, le braccia rigide, il volto sudato. Il dottore lo scosse delicatamente e lo svegliò.
«Buongiorno, soldato, come ti senti oggi?»
«Molto meglio dottore, grazie» rispose educatamente. Ma lo sguardo era quello di una preda inseguita da un carnivoro.
«Allora, visto che stai meglio, devi farmi un favore: smettila di spaventare i tuoi compagni con queste storie sulla morte. Certo, puoi dire che l’hai vista in faccia, ma è solo una figura retorica, hai avuto un trauma terribile. Per la verità è stato quasi un miracolo che tu sia arrivato vivo qui. Ma ora sei fuori pericolo, domani ti spedisco a un vero ospedale, lontano da questo inferno.».
Il ragazzo ascoltava senza replicare, lo sguardo perso nel vuoto. Poi riprese a parlare con un tono piano, incolore.
«Vede, signor capitano, io ero lì con la gamba a pezzi e la vita che mi stava uscendo dalle vene, lo sentivo che stavo per morire. Mi sono messo a piangere. Ma non per il dolore, quello non c’era più, e nemmeno per la paura. Piangevo perché ero andato via di casa senza chiedere il permesso di mio padre per arruolarmi, ero in pratica fuggito senza salutare né lui né mia madre. Io sono figlio unico, loro mi adorano ed io li ho ripagati scappando come un ladro. Ecco, non volevo morire così, volevo almeno scrivere ai miei genitori, chiedere perdono, salutarli. Poi l’ho vista. Era una vecchia, alta, vestita di nero. Mi si è inginocchiata vicino. Era bella, un volto fiero, degli occhi penetranti ma con un’ espressione stanca, dolce e severa insieme. Mi ha accarezzato la fronte e mi ha detto che quel giorno ne aveva dovuto raccogliere già troppi di ragazzi come me. Aveva ascoltato il mio animo e mi avrebbe dato qualche giorno ancora per poter dire addio ai miei cari, ma poi sarebbe tornata, doveva tornare. Ho sentito la sua mano su di me, poi mi sono svegliato qui.».
«Basta! Smetti di dire sciocchezze!» Il dottore era veramente irritato, «tra un mese, forse anche prima, tornerai a casa. Per te la guerra è finita. Potrai riprendere i tuoi studi, magari diventerai un letterato, forse un poeta», si permise un burbero sorriso, «sembra che un po' di stoffa tu l’abbia, vero?»
Finalmente ci fu un guizzo negli occhi del ragazzo: «Grazie per tutto quello che ha fatto per me, dottore. Sì, è vero, volevo fare il giornalista, studiavo greco e latino, studiavo la storia, ma non credo che diventerò qualsiasi cosa, tutto è cambiato…»
Il dottore lo interruppe: «Certo che tutto è cambiato, ma per ciascuno di noi! Questa guerra sta spazzando via i residui di un evo. Torneremo a casa, almeno chi riuscirà a venire fuori da questo inferno dei vivi, e nulla sarà come prima. E tu lo vedrai, sei tra coloro che torneranno e dovranno ricostruire. Domani stesso ti trasferisco, esco di qui e vado a metterti in lista, ma devi smetterla di tormentarti, di dire corbellerie. Fallo per te, o almeno per i tuoi compagni qui vicino: non parlare più di morte. Devi pensare al futuro. Lo so, senza una gamba sarà complicato, ma tu ce la farai!»,
Il ragazzo per tutta risposta tirò fuori un foglio piegato e lo porse al dottore.
«Qui c’è la lettera per i miei genitori. Gli spiego tutto e chiedo il loro perdono. L’indirizzo è sul retro. Mi prometta di spedirla, la prego, è l’unica ragione per la quale sono ancora vivo.».
Il dottore impiegò qualche secondo per vincere l’istintiva reazione rabbiosa, ma si rese conto che sarebbe stata inutile. Rispose con calma: «Ascolta, soldato: tu hai avuto una grande fortuna, per quello che mi riguarda, potrai arrivare a cent’anni. Ripeto, basta parlare di morte, è un ordine, sono stato chiaro?»
Sul volto del ragazzo si dipinse un’espressione di tale disperazione e delusione che il dottore quasi si pentì di quello che aveva detto. La sua mano era ancora lì, tesa con la lettera ben stretta, come a implorare.
«Va bene, te la spedisco questa lettera, ma ne aggiungerò una di mio pugno ai tuoi genitori per rassicurarli, dirò loro che l’unico tuo problema, oltre naturalmente alla perdita della gamba, è questa ossessione, ma che col tempo ti passerà. Dammela.». Senza più voltarsi, mise il foglio nella tasca del camice e se ne andò.


Quella sera il dottore riuscì a cenare a un'ora quasi normale e in compagnia di un suo buon amico, il cappellano militare assegnato all’unità, col quale aveva condiviso molti mesi sull’altopiano.
Padre Fiorani era una persona di poche parole, tanto schietto e amante della buona tavola e della buona grappa quanto saldo e cristallino nella sua fede. «Iddio, di questi tempi è impegnato in ben altre cose, alle sciocchezze che dice e fa questo suo umile servo non ha tempo di badare», soleva dire quando riuscivano ad avere un poco di tempo per scambiare quattro chiacchiere, alla presenza muta ed effimera di una bottiglia di acquavite.
Il dottore aveva finito da poco di scrivere alla famiglia di Obialero, comunicando una buona notizia, se si poteva considerare buono il fatto che l’unico figlio avrebbe trascorso una vita da invalido, ma era vivo e sarebbe presto tornato a casa. L’avrebbe spedita il giorno dopo, quando sarebbe arrivato il camion della posta e dei rifornimenti.
Con quel ricordo ancora fresco, gli venne spontaneo porre una domanda all’amico sacerdote.
«Renzo, stiamo perdendo un’intera generazione di giovani, dimmi, perché Dio permette tutto questo? Perché non manda un nuovo diluvio per fermarci? La mia fede è stata messa troppe volte a dura prova in questi ultimi mesi, non riesco a trovare un senso in quello che stiamo facendo; non tu o io, intendimi, ma noi come genere umano; soprattutto non riesco a vedere la volontà di Dio dietro a questa carneficina.».
Il cappellano si prese tutto il tempo di una buona tazza di acquavite sorseggiata con calma, prima di rispondere.
«Anche la guerra è parte del disegno di Dio. E’ nella Bibbia, nell’Ecclesiaste:“Per ogni cosa c'è il suo momento.”. Poi specifica: “C'è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per uccidere e un tempo per guarire.”. Caro Antonio, Dio tra tutti i doni che ci ha fatto, ci ha anche dato la libertà. La libertà di scegliere tra Lui, il Bene, e il Demonio, cioè il Male. Ecco, direi che in questi tempi gli uomini stanno seguendo più il Demonio che Dio. E per il Demonio, questo è tempo di uccidere. Bada, il Demonio esiste davvero, ha un corpo e vive tra noi.».
Il dottore ascoltava con attenzione, tormentando con una mano il suo pizzetto nero, com’era solito fare quando pensava.
«Il Demonio esiste fisicamente? Quindi anche gli Angeli e la Morte, esistono dunque tutti, non sono solamente la personificazione delle nostre buone pulsioni e delle nostre paure?».
«Il Demonio e gli Angeli certamente sì, in molti hanno visto e udito l’uno e gli altri. La Morte, secondo la tradizione ebraica e poi la nostra, cristiana, non è altri che un Angelo con un compito particolare, quindi sì, esiste.».
«Vedi Renzo, uno dei miei pazienti sostiene di avere visto la Morte in persona, non un Angelo, ma una donna anziana.».
Il dottore riassunse la vicenda di Obialero al cappellano. Alla fine don Fiorani appariva pensieroso.
«Sai Antonio, noi non lo possiamo escludere. Ti ho detto che la Morte è null’altro che un angelo con un suo compito particolare. Noi, arbitrariamente, attribuiamo agli Angeli un certo aspetto: giovane, le ali, vagamente maschile, ma in fondo è solo una tradizione; non vedo perché non potrebbe essere come l’ha descritto il tuo soldato.».
Il dottore finì il bicchiere, poi lo scetticismo trasparì dalle sue parole: «Credo che potremmo stare a parlarne tutta la notte ma non giungeremmo ad alcuna conclusione certa. Ora però è meglio che andiamo a dormire, se possiamo; temo che domani sarà un’altra pessima giornata per noi e per l’intera umanità.».
Don Fiorani si alzò, «Amico mio, ti lascio con qualcosa su cui meditare: se la tua scienza non sa spiegare un fatto, prova a spiegarlo con la tua anima. Buona notte Antonio, che Dio ti benedica.».
Una piccola benedizione effettivamente sembrò essere giunta, la mattina dopo. Prese la consistenza del vento che si era placato, cambiando direzione e portando con sé molta umidità; come risultato, appena un centinaio di metri più in alto dell’ospedale stazionava un tappeto di nebbia. Di fatto nulla d’importante poteva accadere in quelle condizioni, se non qualche scaramuccia di pattuglie, mentre la mancanza di visibilità rendeva inutili i tiri dell’artiglieria. Si udiva soltanto qualche raro colpo d’obice sparato a casaccio, più per tenere il nemico in apprensione che per fare veramente dei danni.
L’autocarro era fermo nel fango mentre i barellieri caricavano i feriti da portare a valle.
La ferrovia che collegava Asiago con Thiene era stata interrotta, e occorreva appunto il camion per raggiungere a Thiene la rete ferroviaria nazionale. Da lì il treno avrebbe completato il lungo trasferimento verso gli ospedali di Padova, Vicenza o altri ancora.
Il soldato Obialero fu fatto salire per ultimo, il telone con la grande croce rossa fu chiuso alla meglio, infine il veicolo si avviò e sparì in pochi minuti, scoppiettando giù per la pista fangosa.
Sulla stessa pista, dopo un paio d’ore, un altro autocarro risalì faticosamente sino all’ospedale. Portava i rifornimenti e la posta. Il dottore uscì della tenda e andò incontro al sergente che ne era appena sceso, affondando nel fango.
«Buon giorno capitano», disse il sottufficiale accennando appena al saluto «ho cattive notizie, purtroppo.».
«Che cosa è successo, sergente?»
Il sergente trovò finalmente una piccola zona solida, dove fermarsi senza affondare in quella melma rossastra.
«Sapete, il camion dei vostri feriti, quello che è partito da qui un paio d’ore fa?»
Il viso del dottore si fece pallido.
«Era a poca distanza da Campomulo, ma un colpo da 305 mal diretto, non si sa neppure se fosse nostro o degli austriaci, gli è esploso a pochi metri. Sulle prime sembrava che fossero tutti salvi, poi abbiamo trovato un poveraccio con una scheggia dritta nel cuore. Pensate, tutti gli altri senza un graffio, lui morto stecchito.»
Un presentimento colpì il dottore come un pugno.
«Chi è la vittima?» chiese con un filo di voce.
«Ho qui la sua piastrina… vediamo, ah sì, Vittorio Obialero.».
Il sergente porse la piastrina al dottore che la prese, impietrito. Ma il sergente non aveva finito il suo racconto.
«E’ stata una vera fatalità. Hanno colpito il camion solo perché si era fermato. Una donna, una vecchia contadina, dicono, era stesa a terra, sembrava stare male. L’autista si è fermato per prestarle soccorso e proprio allora è arrivato il colpo, una ventina di metri dietro. La cosa strana è che, passato il momento di panico, non c’era traccia di quella donna, probabilmente si è riavuta ed è fuggita, ma nessuno l’ha vista. come se non fosse mai esistita.».
Salutato il sergente, Il dottore si diresse alla sua tenda, prese dal cassetto la lettera che aveva scritto la sera prima per i genitori del soldato e la strappò con rabbia; poi indossò la mantellina, prese la bottiglia di grappa e uscì alla ricerca di don Fiorani.
Forse il sacerdote gli avrebbe insegnato come lasciare da parte la sua scienza e permettere all’anima di spiegare l’accaduto.
Se no, era la volta che si sarebbe ubriacato.


N.d.A. La Storia è una grande maestra con pessimi allievi. Questo mi ha insegnato mio padre, che ha combattuto negli scenari di questo racconto.
Ragazzo del ’99, volontario negli “Arditi”, medaglia di bronzo, croci di guerra, non perdeva occasione per inculcare nel suo unico figlio l’amore per la pace.
A lui dedico questo lavoro.




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Opera scritta il 05/05/2016 - 15:40
Da mario malgieri
Letta n.1286 volte.
Voto:
su 2 votanti


Commenti


Francesco, Salvo, Profeta, Claudio, grazie per i vostri commenti e grazie per i voti.
Claudio, il libro di Lussu non l'ho letto ma il paragone mi inorgoglisce. Conosco l'altopiano di Asiago e la sua storia per averne percorso quasi ogni sentiero in tempi ahimè lontani.

mario malgieri 07/05/2016 - 08:54

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Un appuntamento con la morte che rivisita il tema di "Appuntamento a Samarcanda" tra leggenda, tradizione e storia. la prima parte descrittiva ricorda molto le descrizioni di "Un anno sull'altipiano" di Lussu.

Glauco Ballantini 07/05/2016 - 07:59

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piaciuto e bella anche la poesia 5*

POETA DELL'AMIATA LUPO DELL'AM 05/05/2016 - 22:27

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Mi sono immerso senza fatica nella lettura di queste pagine di storia. La storia è in effetti una delle mie passioni. Ho letto tutto il Candeloro e ogni tanto do una ripassata. Credo che nei libri di storia queste pagine siano ricordate come cruenta battaglia dell'altopiano di Asiago, ma potrei essere in errore. Scrivere di guerra con l'amore per la pace è il messaggio che mi resta più impresso. Complimenti per il lavoro minuzioso e l'esposizione . Pace all'anima dello sfortunato milite.

salvo bonafè 05/05/2016 - 22:11

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Ah.. aggiungo che la poesia, all'interno del racconto, e superbamente bella. Ciao Mario

Francesco Gentile 05/05/2016 - 20:20

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Non sono capace di commentare questo racconto.... che consiglio di leggere a tutti. "La storia è una grande maestra con pessimi allievi" .. ma, per fortuna, c'è ancora qualcuno che crede nel valore e i messaggi della storia. I più sentiti complimenti.

Francesco Gentile 05/05/2016 - 20:18

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