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Lamentazione di Orfeo ( II )

Nella grandiosa impresa, vincitore
in che modo mai n’ uscivo?
La gioia di averti accanto,
esplorare le ore del giorno,
Ipno, con carità, teneva mio bene,
tanta era la voglia dell’alba,
non sfiorarmi con l’aurea verga.
Si muovono i fratelli della Morte
nel tempo beato, lumi
e inganni di vero e fallacia.
Scintillava il nome di eroe
per il mortal che seguiva la sorte,
pur se questa era avversa.
Fin qui fu mia consolazione,
ché saggezza olimpia
spinse il mio canto, e non la ciarla
mortale di umane corde,
avverse al cronide buono.
E torno ai momenti in cui lieto
e tratto dall’anima il canto,
lieta te rendevo e di nuovo io
lieto rinascevo dagli occhi tuoi felici.
In queste schegge di luce il desiderio
mai fu nascosto, l’amar manifesto,
intimità schiusa, stretta la passione,
mai comparse la paura.
Bastava aprire la cella del cuore,
e vivere liberi le bellissime ore.
Ma … sì, non feci io un primo passo,
lei corse poi … poi,
in qual modo il morso patire?
fu sì gravoso superar la danza.
Perché non spensi il sogno
e accesi, ché il terror lo chiede, la ragione?
Annientatrice della terrestre speme,
nelle grazie della natura s’ è intrusa,
perfida, otre di tutti i mali ricolmo.
Quale elisir può curare i mali
effusi dalla sua dischiusa?
Guardatela, coperta di fiori, gioire
la terra, sopra le sue ceneri sparsa.
Misurare prima ti devi sempre,
coi sentimenti divini ignobili,
essi buoni ricoprono gli alberi
ed ogni tempo che amore ricorda;
non lontano vadano i tuoi pensieri
ch’ è vile sconfitto chi di lor si scorda,
mai è cozzar l’ oscura invidia,
nemica d’ amore tradito
dal padre Zeus, segno
ovunque che viver unico è il modo,
ma poi maledizione dal tuo nome.



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Opera scritta il 14/10/2016 - 20:29
Da Franco Tommaso
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