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Nuvole e luce nella vita di un uomo

La sagoma alta si affacciò al primo piano di un lungo caseggiato, che mimetizzandosi nelle tonalità autunnali di un promontorio si elevava discretamente verso nubi sornione. La sua finestra era ritagliata nel mezzo della facciata color mattone, i suoi vetri opachi ben identificabili agli occhi di un’accorta casalinga, come quelli del balcone affianco appartenente allo stesso bilocale. Sul terrazzo si accumulavano oggetti mal assortiti, tra i quali occhi attratti da altri dettagli potevano pescare un paio di occhiali eccentrici portati via a una bancarella d’antiquato qualche anno prima e come in attesa su di un grill recante ancora tracce dell’ultima grigliata in strampalata compagnia, oppure far caso a una maglietta stinta esposta inerme al prossimo temporale. La sagoma si affacciò e chinò la testa verso la stradina sottostante, palesemente attratta da sei ragazzini che vi si affannavano dietro un pallone.
A difendere la metà campo alla sua destra – poche pietre disposte in maniera grossolana riproducevano goffamente la geometria della rete – un ragazzino tarchiato, rosso in viso e grondante sudore, intento ad assicurarsi che la manica della maglietta fosse ben ferma sull’avambraccio destro, quindi su quello sinistro.
Mani tozze tremavano risolutezza mentre le dita stringevano le maniche, e le braccia ora conserte sembravano sfidarle a srotolarsi ancora; le stesse mani, a breve, avrebbero arrestato in aria il pallone con una presa definitiva. Lo sguardo fiero si sarebbe allora fissato su ciascuno dei suoi compagni, mentre trionfante avrebbe esibito verso di loro la sfera di cuoio ben salda tra le sue mani, e per un istante nei loro occhi sgranati lui e la sfera sarebbero stati una cosa sola, quasi ricordando un’improbabile statua di Bobby Moore…
Il pallone fendette l’aria a sorpresa, lanciato da un ragazzetto agile e smilzo, volò leggero e finì come per caso al di là della bassa statura del portiere, colto impreparato e in ritardo per pararlo. Il ragazzetto che aveva calciato fece un salto in aria e le labbra accompagnarono quello che doveva essere un prolungato “Evvaaai!”, poi in pochi istanti i due compagni di squadra gli furono intorno, braccia in aria e volti festosi.
L’aspirante Buffon stroncato sul nascere raccolse il pallone imbronciato e accigliato lo posizionò davanti a sé, per punirlo con un calcio rabbioso di sconsolata delusione.
A metà tra il divertito e l’allarmato, lo scrutatore alla finestra pregò in cuor suo che non lo facesse. Inutilmente. Disegnando una traiettoria tanto veloce quanto anomala, la sfera bianco-nera andò a infrangere, evitando le due piantine grasse sul davanzale, il vetro al primo piano della villetta bianca dagli infissi verdi, che si opponeva al caseggiato pochi metri più a sinistra, verso la metà campo inviolata, rispetto al suo punto di osservazione.
Lesti i ragazzini si defilarono. Ad aprire la finestra dai vetri a pezzi come i sogni di gloria del quattordicenne avvilito, venne una faccia leggermente rugosa, con naso aquilino, labbra severe e occhi stanchi, che rivolgendosi verso il grigio asfalto sottostante scorsero solo qualche pietra ingombrante.
L’uomo alto gettò un’occhiata nostalgica in direzione del viottolo a gomito battuto a gambe elevate dai ragazzini, sospirò ritornando con lo sguardo sulla stradina ora deserta, fino a pochi istanti prima assurta a fantomatico campo di calcio per quel gruppo di entusiasti scalmanati, e rivolse ancora uno sguardo partecipe all’anziana ma si guardò bene dall’aprire le imposte, presentendo che quella avrebbe sfogato il disappunto lamentoso su di lui.
Si rintanò nel silenzio del suo appartamento, che però ad un tratto lo infastidì e gli provocò un’angoscia opprimente, come gli capitava in passato quando la sua donna si chiudeva in se stessa con cocciuto riserbo della propria intimità e insieme con una certa aria di sfida. Il suo silenzio scostante, che copriva di gelo un disperato bisogno di esplodere in uno sfogo concitato, lo confondeva, lo indignava e lo faceva sentiva inadeguato, quando non riusciva a cavar fuori le spiegazioni volute o a smorzarlo nei toni leggeri di una conversazione elusiva.
Ancor più perché il suo orecchio era avvezzo a monologhi insistenti, molesti come maldestri saliscendi di un arco su un violino, che risuonavano sovente nel timbro di una vecchia voce amica. Senza il minimo incoraggiamento, valanghe di parole fuoriuscivano dalle labbra del suo amico, virulente a ritmo di emozioni esplosive, poi distinte e altisonanti come idee giuste e inconfutabili sul mondo, ancora incerte e biascicate quando un discorso si ingarbugliava; allora un’intonazione interrogativa chiedeva conferma, e la voce ripartiva a dirotto dopo qualche sillaba di assenso distaccata quanto evasiva del suo interlocutore.
Malgrado ciò era entusiasmante andare in moto con lui e gridare di tanto in tanto per superare il rombo del motore ed il fischio del vento. Era in momenti come quelli che il suo orecchio si prestava ad ascoltare, rumori come pure silenzi, o anche sussulti di parole pronunciate a metà. Proprio quelle che avrebbe voluto sentir riecheggiare con fermezza.
L’uomo alto diede le spalle, strette, alla finestra – intanto gocce di pioggia avevano preso a scendere pesantemente, quasi furenti per l’incessante venir giù. Nessuna raffica di vento le faceva ballare per un po’, nessun momento di vertigine, solo un cadere a fil di piombo con un tambureggiare ottuso, che non aveva in sé nulla di melodioso ma a cui pure l’orecchio finiva con l’assuefarsi – si chiuse in se stesso dimentico di tutto e si lasciò trasportare dal vento sulla moto che… ecciù! Gli avrebbe provocato un immancabile raffreddore.
L’odore dell’inalatore nasale si confuse nei suoi ricordi con i profumi di primule ed erbetta fresca respirati avidamente durante la corsa, insieme al puzzo di benzina dell’autogrill in cui, fermata la moto e tolti i caschi, lui e il suo amico sostavano per bere un caffè e fumare qualche sigaretta.
Il sapore d’insoddisfazione del fumo bastò a fargli sentire tutta l’amarezza della saliva che non si mischia ad altra saliva, quella di una bocca calda e familiare, il cui retrogusto gli si era impresso nelle papille gustative come quello del cioccolato fondente, che sua madre scioglieva e aromatizzava con un po’ di arancia prima di versarlo nel composto del panettone. O come il gusto della granita ai gelsi, che dissetava la sua bocca infantile in quelle mattine roventi prima di scendere in spiaggia.
Già, il sapore di salsedine e l’arsura in bocca, con l’urgenza disperata di bere.
L’uomo dalle spalle strette e la maglietta nera girò la fredda chiave della credenza con la mano destra affusolata, mentre l’altra afferrava una bottiglia di scotch ma non aveva l’abitudine di bere da solo, e restò con la bottiglia a mezz’aria, stringendola con la mano sudata fino a bagnarla, proprio come in passato avrebbe voluto fare con quel corpo di donna lentigginoso, scivolarvi lentamente e poi stringerlo con furore, pur sapendo già allora che nemmeno così sarebbe riuscito a trattenerlo... gli si sarebbe sgretolato come gesso tra le mani, e i granelli sarebbero sfuggiti alle dita appassionate, tra le quali si sarebbe insinuato il freddo inconsistente dell’aria.
Ripiegandosi su se stesse come ramoscelli rinsecchiti, quelle dita appesantite dagli anni bastarono a catturare il senso di una lunga esistenza priva di linfa vitale, abbandonata infine perfino dai parassiti.
Piantò la bottiglia sul tavolo e si precipitò fuori come sfuggendo a se stesso o colto da un’ispirazione improvvisa.
Uscì fuori nell’aria fredda e benvoluta dal suo corpo accaldato. Nel fare pochi passi sull’asfalto bagnato vide scintillare il dispettoso incantatore ributtato rabbiosamente in strada dalla vicina. Fu irrefrenabile l’impulso di dargli un calcio.
Immaginando davanti a sé una rete - un’autentica, fulgida rete bianca - lo posizionò a pochi metri da questa, e dopo una breve rincorsa fece partire deciso il tiro, colpendo di punta col piede destro ed imprimendo nella sfera di cuoio la giusta traiettoria insieme a tutto il vigore e l’energia di cui si sentì capace, deciso a segnare il più bel goal della sua vita.
La sfera non solo finì nel bel mezzo della favolosa rete ma provocandovi un gran buco continuò il suo percorso a bassa quota, fino ad urtare contro una palizzata, rimbalzando e andando a finire nel bel mezzo di un secchio colmo d’acqua.
Di lì a poco, un cucciolo di cane bagnato dal pelo marrone prese a giocarci, mentre il trentenne dai piedi grandi -ora fermamente deciso a riconquistare la sua donna- procedeva con lunghe falcate che avrebbero destato meraviglia forse finanche nella seccata vicina. Il cucciolo sbarazzino leccava il pallone, ancora ignaro che in quel caseggiato, di lì a qualche anno, avrebbe stretto amicizia con una preziosa compagna di giochi. Stampe colorate lo avrebbero in un certo futuro raffigurato con quella bambina, dai boccoli castani e il corpicino lentigginoso. A fare da cornice un ridente promontorio soleggiato.



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Opera scritta il 25/10/2020 - 17:39
Da Atrebor Atrebor
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