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LA CHIESA BIANCA

Ce la trovammo davanti un tardo pomeriggio di una estate lontana.
Faceva così caldo da far desiderare di togliersi la pelle pur di sentire un po’ di refrigerio e noi, appunto, ce ne stavamo tornando a casa dopo aver sguazzato beatamente in uno dei tanti fossi del circondario.
Non era la prima volta che la vedevamo, naturalmente, ma, quel giorno, ci eravamo spinti fino quasi al fiume e fu quindi inevitabile che ci passassimo proprio accanto.
Non sembrava una chiesa vera e propria. Assomigliava più ad una cappella votiva, un tempietto in stile barocco, perfettamente circolare, con in cima una cupola, come se ne vedono tanti in giro, che dell’originario colore bianco serbava chiazze di ricordi ammuffiti qua e là.
Se ne stava tranquilla in mezzo ai campi, proprio sull’argine. Muta, come un fantasma che guarda attraverso le sue orbite vuote, richiamava a pennello storie di altri tempi, di epoche lontane, storie da narrare a lume di candela dopo aver sprangato la porta per bene.
Un boschetto di robinie la nascondeva in parte, quasi avesse imbarazzo a mostrare quello che restava di un passato remoto di cui nessuno voleva più sentire parlare.
Una porta di legno sfondata costituiva l’unica via d’accesso, in cima ad una manciata di scalini di granito completamente ricoperti dalle erbacce.
Per una persona normale quel posto presentava le stesse attrattive che può presentare un deserto, ma Mario era tutto tranne che una persona normale e, come al solito, non seppe resistere: mollò la bicicletta e volò a sbirciare dentro.
Vista la faccia che fece quando uscì, anch’io cedetti e lo seguii in velocità.
L'odore di urina e l'infelicità delle scritte sui muri non invitavano di certo, ma entrai. L’interno era un monologo di silenzio, di polvere, sporcizia e ruggine.
Un piccolo altare, semidistrutto, era sepolto da detriti vari, bottiglie vuote e cartacce. Il tabernacolo non c’era più e sembrava che lo avessero smurato gettandovi dentro una bomba a mano.
I muri, deturpati da scritte più o meno oscene, erano dipinti con figure religiose tanto sbiadite che non si vedevano quasi più. I dipinti arrivavano fin quasi al soffitto concavo da cui pendeva una matassa inestricabile di ragnatele ammuffite.
A metà parete si apriva una finestrella ovale da dove entrava una lama di luce che accarezzava i volti di due angioletti in adorazione.
Il pavimento era lastricato con piastrelle esagonali bianche e nere. Aveva un diametro di quattro metri circa ed era praticamente coperto da uno spesso strato di polvere, detriti e immondizia varia.
Ne avevamo esplorati tanti di edifici abbandonati in giro per le campagne e quello, in fatto di degrado, non faceva certo eccezione.
Là però c’era qualcosa di diverso. Qualcosa che attirò subito la nostra attenzione.
In mezzo al pavimento, chiusa da un coperchio di granito munito di un grosso anello di ferro arrugginito, c’era una botola.
Fu Mario che, scostato uno strato di cartacce, la notò per primo. “Chissà cosa c’è là sotto…”, sussurrò, “...forse un tesoro...!”, aggiunse e i suoi occhi si riempirono di stupore e meraviglia.
Io, invece, lo riempii di parolacce perché, visto come si presentava il resto, ero tutt’altro che convinto che quella botola celasse qualcosa di veramente prezioso.
“Ma che tesoro e tesoro!!”, tuonai, “Anche ammesso che riusciremo ad aprirla, troveremo un bel mucchio di rifiuti o, al massimo, qualche topo….!”.
Ma, alla faccia dei rifiuti e dei topi, la curiosità bisbigliante e l’ebbrezza di una nuova esplorazione vinsero e, dopo mille sforzi, il coperchio cedette e la botola si spalancò su di un mondo misterioso ed oscuro. Ci sporgemmo e riuscimmo ad intravedere solo un piccolo riquadro del pavimento sottostante, anch’esso ricoperto da polvere e sporcizia.
Mario, che aveva sempre qualche fiammifero in tasca, incendiò un po’di cartaccia raccattata per terra e la lanciò di sotto. La luce flebile della fiamma illuminò qua e là porzioni di pavimento lercio e parti di pareti incrostate da muffe.
La torcia improvvisata durò pochissimo e, prima che la fiamma si spegnesse del tutto, riuscimmo ad intravedere qualcos’altro, qualcosa di non ben definito, un ammasso di detriti probabilmente, accanto alle pareti.
Lo stomaco si riempì di un’eccitazione rovente e il brivido di scoprire qualcosa di nuovo, di occulto, che avrebbe lasciato a bocca aperta quei lumaconi dei nostri amici in paese, fece il resto.
Ci ficcammo nelle tasche un bel po’di cartacce come scorta e poi, uno dopo l’altro, come se niente fosse, saltammo giù in quel mondo ignoto.
In una frazione di secondo precipitammo di sotto, in mezzo alla polvere, procurandoci ammaccature e contusioni varie.
“Beh, poteva andare peggio….”, sospirai quando riuscii a rialzarmi. Andò peggio.
Vista da giù la botola era in alto. Molto in alto.
Molto più in alto di quanto ci era sembrato stando di sopra.
Pensai che sarebbe stata proprio una bella sorpresa se non fossimo riusciti a risalire. Una sorpresa da morire dal ridere.
Mario si guardò intorno e cercò di fare l’espressione più sveglia di cui fosse capace, poi alzò gli occhi verso l’uscita, lassù.
E, quando la vide, cominciò a urlare.
Là sotto l’odore era più che un odore. Era un attacco al cervello che s’impadroniva dei sentimenti e mi riempiva con un’irresistibile voglia di scappare. E non era solo il classico odore di immondizia e di muffa a tenere banco. C’era, in sottofondo, anche un sinistro odore di chiuso, di stantio, mischiato ad un sottile e più infido odore di morte.
Pensai che, quello, dovesse essere l’odore di qualche animale che si era spinto fin là sotto, oppure ci era caduto ed era rimasto intrappolato fino a morire.
E pensai anche che, se non fossimo usciti alla svelta da quel posto, entro qualche giorno quell’odore sarebbe stato anche il nostro.
“E adesso cosa facciamo?”, supplicai il mio amico con voce incrinata dal pianto.
“Calma e sangue freddo!”, gridò Mario, “Ci deve essere per forza un’uscita!”, ma sotto quel tono autoritario si sentiva pulsare forte il rimbombo della paura.
Poi radunò tutte le cartacce che ci eravamo portati ed accese un piccolo falò.
La debole fiamma ci regalò un’altra sorpresa.
Oltre al pavimento impolverato e le pareti corrose dall’umidità, si illuminò anche una cosa che, prima, dall’alto, avevamo solo vagamente intravisto.
“Ehi! Sembra che.…”, iniziò a spiegare Mario, ma non riuscì a finire la frase. Si voltò verso di me con gli occhi spalancati, come se si trovasse chiuso dentro la gabbia dello zoo con un leone affamato.
Il respiro gli usciva dalla bocca come un getto forte di vapore.
Poi, anch’io vidi e fu come ricevere un pugno violento sotto la cintura.
Restammo paralizzati, con la bocca aperta e lo sguardo perso nel vuoto.
Ossa. Eravamo finiti in mezzo a mucchi di ossa. Ossa di tutti i tipi, accatastate accanto alle pareti e, più in là, ammucchiate sul pavimento. Ossa vecchie di secoli e ormai polverizzate, ma anche più recenti, con ancora attaccati brandelli di tessuto incartapecorito.
Sommai tutte quelle ossa con la botola troppo alta e ottenni un risultato poco piacevole. Non tanto per l’aspetto macabro di quel posto, ma perché non ci avevo messo molto a capire la trama del film e concludere che per noi stavano per scorrere i titoli di coda.
La Chiesa Bianca doveva essere un vecchio ossario, costruito probabilmente per accogliere i miseri resti di qualche antico cimitero spianato per allargare i campi o distrutto dalla piena del fiume.
La botola era servita solo per gettare le ossa di sotto.
Altre uscite non ne avremmo trovate. Fine della trasmissione.
Provai a chiudere gli occhi, poi li riaprii e li stropicciai, feci un bel respiro e contai fino a dieci, sperando che quello che avevo appena visto fosse frutto della mia immaginazione, della luce debole della fiamma o del troppo sole preso mentre facevo il bagno, ma la situazione non cambiò.
Ci guardammo attorno per cercare qualcosa, un segno, anche minimo che ci potesse aiutare ad evadere da quella tetra prigione.
L’ossario era abbastanza grande. Lo ispezionammo più volte ma trovammo solo ossa, polvere e muffa.
E nessuna uscita.
Una sensazione gelida ci trapassò e ci fece rizzare la pelle della schiena rendendola simile a quella dei polli.
“Guardiamo di nuovo!!”, urlai in preda al panico.
Avrei voluto aggiungere altro ma, proprio in quell’istante, il falò, per essere coerenti con il posto in cui ci trovavamo, esalò l’ultimo respiro.
Di colpo l’ossario si fece buio. Le tenebre erano squarciate solo dal raggio di luce che filtrava dalla botola aperta.
Guardammo in su e scorgemmo una fetta del caldo tramonto estivo.
Il sole si era stancato di abbrustolire la campagna ed entro poco tempo avrebbe chiuso la baracca, cedendo il posto all’afosa oscurità crepuscolare.
Laggiù nell’ossario, invece, faceva un gran freddo.
Buttai là un’idea, la più ovvia che mi venisse in mente: “Mario….fammi salire in groppa…!”.
“Perché…?”
“Perché voglio tentare di raggiungere l’orlo della botola….”.
Mario acconsentì alla scalata, ma fu tutto inutile. Per aggrapparsi all’orlo mancava un bel pezzo.
Stavolta fu lui a suggerire: “Prova a metterti in piedi….”.
Mario aveva solo dodici anni ma era già grande quasi come un armadio. Non avrebbe avuto problemi a reggere sulle spalle un quasi coetaneo, anche se in netto sovrappeso.
I problemi li ebbi io nell’issarmi ma, dopo un paio di tentativi, durante i quali rischiai più volte di schiantarmi sul pavimento, riuscii finalmente a mettermi in piedi sulle spalle del mio amico, come fanno gli acrobati al circo.
Al circo avremmo certamente preso qualche applauso. Là sotto, invece, prendemmo un’altra gelida delusione visto che, neanche così, riuscivo ancora a sfiorare l’orlo.
Allora tentammo l’ultima carta. Ripetemmo la manovra dopo esserci scorticati mani e braccia per accatastare mucchi di ossa e costruire una specie di rampa. Ma, sotto il nostro peso, le ossa si sbriciolavano e inoltre Mario faceva una fatica tremenda a stare in equilibrio su quella montagnola friabile con il sottoscritto sulle spalle.
Dopo vari tentativi Mario, con uno sforzo sovraumano, riuscì a restare fermo, come un blocco di cemento, ed allinearmi alla botola. Allungai i muscoli, i tendini, le vene, le arterie, la pelle, le ossa, i peli e i capelli per innalzarmi ancora di più.
Mentre Mario ansimava come una locomotiva a vapore in salita, pensavo a come dovevano sentirsi i malcapitati che venivano sottoposti al supplizio dello stiramento dal tribunale dell’Inquisizione e, intanto, vedevo la distanza tra le mie dita protese e la botola assottigliarsi sempre di più.
Ce l’avevo quasi fatta! Ora, dovevo solo mettermi in punta di piedi.
Lentamente mi diedi l’ultima spinta e, piano piano, metà polpastrello riuscì a toccare il pavimento di sopra.
Ma, per aggrapparmi saldamente ed issarmi, non ancora bastava. Servivano almeno un paio di centimetri.
Chiesi a Mario l’ultimo sforzo.
Mario si alzò sulle punte dei piedi per darmi l’ulteriore spinta, piano piano la mia mano arrivò a toccare per metà il pavimento di sopra. Era sufficiente, ora toccava a me.
Feci forza sugli avambracci e, contemporaneamente, puntai i piedi sulle spalle di Mario. Tutti i muscoli erano in tensione, mancava una frazione di secondo al balzo finale: UNO…DUE….E…
E la rampa di ossa, sollecitata all’inverosimile, cedette sbriciolandosi e tutti e due franammo nuovamente sul pavimento.
Eravamo spacciati.
In quella tomba sotterranea, che si stava preparando a diventare anche la nostra, si sentivano le automobili sfrecciare sulla provinciale, distante qualche centinaio di metri. A ogni rombo di motore che sentivo passare sognavo di poterci saltare sopra così da poter fuggire via, lontano da quell’inferno tetro e puzzolente.
Urlammo a squarciagola per chiamare aiuto, fino ad incendiare i polmoni.
Ma nei campi non c’era più nessuno. Tutti ormai se ne stavano tranquilli nelle loro case, a tavola oppure ipnotizzati da un gracchiante televisore in bianco e nero, in attesa di iniziare la quotidiana guerra notturna contro le zanzare.
Per la grande pianura vagavano solo i grilli e le rane, che si preparavano per la loro serenata quotidiana nella penombra verde degli argini, in compagnia della Signora con la falce che, senza fretta, aspettava che la fame e la sete, là sotto, finissero il loro lavoro.
Intanto il sole scendeva dietro gli alberi e sui campi. I sui tenui raggi rossastri sfioravano la cupola della chiesa bianca e penetravano dalla finestrella ovale ridando vita alle vecchie pitture sbiadite.
Le ombre si insediavano dentro la chiesa, negli angoli invasi dall’immondizia, e fuori, tra il granoturco, i cespugli ed in mezzo ai rovi, mentre un soffio leggero di vento scompigliava i cespugli, come fossero indomite chiome, portando lontano il loro aroma secco.
Scendeva il sole dietro il boschetto di robinie, lentamente, dall’arancio passava al viola, sfiorando le pareti della chiesa sfregiate da scritte idiote.
L’ultimo raggio strisciò sul terreno fino a lambire la porta sfondata, avanzò deciso sul pavimento di piastrelle esagonali bianche e nere, salì sui resti dell’altare e poi ancora più su, sulla parete corrosa, fino a baciare l’effige di due angioletti in adorazione.
Mario scovò in fondo alla tasca gli ultimi due fiammiferi e li accese. Poi il buio ci scivolò addosso come un'onda dalla quale non si poteva riemergere ed infine si chiuse su di noi come una bara.
Le preghiere imparate al catechismo erano finite da un pezzo e, nel silenzio spettrale, si sentivano solo i nostri denti battere per il freddo e per la paura. Le nostre uniche amiche erano le lacrime che scendevano dal viso lasciando delle righe di pulito in mezzo alla terra e alla polvere accumulatesi sulla pelle.
La loro era l’unica carezza, l’ultima, che avremmo ricevuto là dentro.
Piangevamo, entrambi, soffocando la voce rotta dal dolore, quel dolore che sentivamo salire dalle profondità del petto, come se qualcuno avesse infilato nei nostri cuori tutta la sofferenza dell’umanità e questa sofferenza fosse esplosa fino a bruciarci dentro. Andammo avanti così per un bel pezzo, finché le ossa del torace non iniziarono a farci male, finché le lacrime non si prosciugarono e non ci fu più nulla da piangere, più nulla da pensare.
Quando lo scambio devia e si finisce sul binario morto, tutto svanisce, come una bolla di sapone: i ricordi avvizziscono come fiori recisi. E allora si tace, non si parla più, poco convinti di tutto, di questi istanti che si stanno vivendo, tranne pensare che sono gli ultimi che sono rimasti.
Non mi ricordo quanto tempo passammo così. Ad un certo momento udimmo un rumore flebile, come un fischio lontano, come un soffio di brezza che passa attraverso un camino e suona una melodia sottile.
Fu allora che avvertii una strana sensazione, come una presenza, che mi faceva rizzare i capelli e sentire una specie di strano solletico vicino alle labbra.
“Oh Gesù….! Guarda là!!”, frignò Mario, dandomi un potente strattone.
Una fiammella si era appena accesa nel bel mezzo dell’ossario.
“Bravo! Hai trovato altri fiammiferi!!”, gridai, ma subito mi aggrappai con forza al grido, ricacciandolo in gola, perché, immediatamente dopo, una vocina lontana sussurrò: “Paolo…Mario…!”.
Il tempo e lo spazio si annullarono in un istante.
“Ma…chi…chi ha parlato…?”, gorgogliò Mario, mentre un senso di terrore mi cresceva nelle budella, spedendomi una sensazione malefica di caldo untuoso, che aveva tutta l’aria di voler esplodere da un momento all’altro.
“Ssssstthh…”, un sibilo sinistro fu l’unica risposta.
Terrore, ansia e voglia di sparire da quel posto tornarono di colpo prorompenti, facendo saltare muscoli e nervi come fossero attraversati da una corrente elettrica, obbligando il cuore a galoppare come una turbina impazzita.
Poi, dal buio, apparve una specie di nuvola di fumo bianco, che ondeggiò e si contorse più volte prima di trasformarsi, gradualmente, in un contorno dalle sembianze umane, diventando sempre più stagliata e distinguibile nei particolari: una bambina.
Indossava una vestaglia bianca ed aveva capelli neri e spettinati. Come occhi, due spaventose orbite vuote ed il volto sembrava la parvenza di un teschio. Con le manine cadaveriche stringeva una vecchia bambola di pezza. Galleggiava ad almeno mezzo metro da terra.
Il cuore saltò al posto del pomo d’Adamo, mentre la vescica mollò definitivamente gli ormeggi liberando rivoli tiepidi lungo le gambe.
“Mi chiamo Rebecca….”, disse lo spettro con voce grave, che esprimeva distanza, ma faceva recepire ancora il timbro fanciullesco. “Ero una bambina e mi piaceva giocare e fare il bagno nei fossi. Proprio come voi….”.
Alzai lo sguardo verso la bambina. Stava piangendo: dalle orbite vuote gocciolava un denso liquame nero.
“Un brutto giorno, però, la corrente ebbe la meglio e per questo le mie piccole ossa giacciono, ormai da molto tempo, in questo luogo oscuro…”.
Nel sentire quelle parole la paura non mi mollò, tuttavia, quella visione non era più tale da incutere terrore ma, anzi, smuoveva, incatenati dentro di me, sentimenti buoni, di pietà e compassione, per una coetanea di chissà quanto tempo fa che, come noi, si divertiva con quel poco che c’era ma che, a differenza di noi, un giorno non ce l’aveva fatta a risalire in tempo.
Ma i buoni sentimenti svanirono subito. Questa volta nemmeno noi saremmo più riusciti a risalire in tempo e, molto presto, quelle cataste di ossa sarebbero aumentate di spessore…
“Lo credi davvero, Paolo?”.
Il fantasma di Rebecca poteva entrare nella mia mente! Svelarne i ricordi, i segreti! Non volevo credere a tutto questo ma, allo stesso tempo, mi sentivo rapito da quella voce così distinta, ipnotizzato da quel suono soprannaturale.
“Ma…non ci sono vie d’uscita….”, balbettai, “Che speranze abbiamo…?”.
La bambina non rispose, anzi, piano piano iniziò a dissolversi fino a scomparire in un bagliore tetro, per poi ricomparire, più in là, tra due cataste di ossa, accanto ad una piccola porta.
"Esistono cose già scritte…”, sussurrò Rebecca, “E la vostra morte, oggi, non è una di quelle….”, poi scomparve repentinamente e il gelo svanì.
Mi trascinai tremante lungo il pavimento, volevo urlare ma non ci riuscivo
Mario, invece, si rialzò di scatto e a tentoni si precipitò là, dove il fantasma di Rebecca era ricomparso per l’ultima volta svelando la porta.
Presa la rincorsa, partì con una potente spallata, carica di rabbia e disperazione.
E la sfondò.
“Aspettami!!”, fu la sola cosa che riuscii a gridare. Poi entrambi volammo fuori a velocità supersonica e capitombolammo fuori, sul retro della chiesa, in fondo all’argine. Lì il terreno era golenale e mano a mano che ci si avvicinava al letto del fiume, diventava sempre più acquitrinoso.
Per ritornare alle biciclette dovevamo camminare dentro quella specie di palude fino alla chiusa, oppure girare i tacchi e scalare direttamente l’argine, tagliando per il boschetto di robinie, tra erbacce, ortiche e rovi di ogni dimensione.
Nessuno sano di mente si sarebbe mai azzardato ad attraversare quel labirinto spinoso, a sera inoltrata.
Noi invece lo attraversammo, di corsa e senza farci troppe domande.
Recuperate le biciclette, pigiammo sui pedali con tutte le forze che ci erano rimaste e arrivammo finalmente a casa, in netto ritardo per la cena, ma sempre in tempo per un castigo di proporzioni galattiche.
Dopo il castigo le vacanze ripresero come prima tra pallone, biciclette, fionde e bagni furtivi in tutti i corsi d’acqua possibili ed immaginabili.
Non parlammo più di quello che era capitato alla Chiesa Bianca né, negli anni a venire, quel luogo riaffiorò mai dai nostri discorsi. Transitammo nei paraggi parecchie altre volte, in seguito, ma nessuno volle mai più deviare per rivedere quel posto da vicino.
E dopo quaranta anni la Chiesa Bianca è ancora là, sull’argine.
Sempre più chiazzata dal tempo e dall’umidità, attraverso la porta sfondata osserva, muta, chi passa da quelle parti e chi lavora nei campi circostanti.
La settimana scorsa ero in campagna per il week-end e, tornando dal supermercato, sono passato proprio nelle vicinanze. Giunto all’incrocio, improvvisamente ho avvertito la necessità impellente di rallentare.
Ho alzato il piede dal pedale e ho girato il volante verso la strada sterrata per l’argine.
I ricordi fremevano, impazienti, sepolti da anni trascorsi lontano, come brace che cova sotto la cenere, sedimentandosi su di un nocciolo duro, inestirpabile, radicato nell’animo, simile ad un cancro che mi divorava dall’interno.
Allora ho parcheggiato l’auto. Incoraggiato dalla bella giornata, sono sceso per sgranchirmi un po’ le gambe e rivedere quel fosso, con l’acqua tanto limpida e fresca, ambita meta dei nostri bagni clandestini tanti secoli prima.
Camminando sulla strada, piena di buche come allora, pensavo.
Pensavo al fatto che non c’erano gambe da sgranchire, non c’era nessun fosso da rivedere.
Pensavo che, inconsciamente, ero andato fino là solo per tornare alla Chiesa Bianca per vedere, una volta per tutte, se quella porta esisteva veramente oppure no. Per capire se quella porta era davvero frutto di un gesto di pietà soprannaturale oppure, più semplicemente, ci eravamo sognati tutto e la porta era lì da sempre e noi non l’avevamo vista perché era buio ed eravamo troppo impegnati a farcela sotto.
Ma, rivivendo quella storia, capii che, forse, sarebbe stato meglio non scoprirlo.
Sarebbe stato meglio lasciare tutto com’era, non svelare nulla.
Le magie, pensai, sono belle fino a quando non conosci il trucco e di trucchi svelati, diventando adulto, ne avevo visti fin troppi.
Almeno quello volevo lasciarlo inalterato.



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Opera scritta il 26/05/2021 - 15:39
Da Paolo Guastone
Letta n.507 volte.
Voto:
su 3 votanti


Commenti


Ciao Giacomo e grazie per l'apprezzamento. Già, eravamo proprio un bel gruppo, come quello dei protagonisti del racconto. Entrambi volati via.....

Paolo Guastone 27/05/2021 - 15:22

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Grazie Anna Maria per il commento positivo. Purtroppo, arrivato As una certa età,certe riflessioni finali vengono fuori da sole. Sono contento che il racconto ti sia piaciuto.

Paolo Guastone 27/05/2021 - 15:20

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Gran bel racconto...ti ritrovo con piacere in questa splendida narrazione...eravamo un bel gruppo, peccato si sia affievolito. Comunque sempre bravo, una garanzia. Ciaociao.

Giacomo C. Collins 27/05/2021 - 15:05

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Racconto scritto molto bene, tiene la suspence fino alla fine. Condivido anche la riflessione finale.

Anna Maria Foglia 26/05/2021 - 18:43

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