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LA LUNGA STRADA DEL RITORNO

L’afa di Agosto soffocava peggio di un cuscino premuto sulla faccia e la banda, al completo, sudava dentro quel rifugio improvvisato su di un albero, al limitare del paese, verso quella distesa di campi, infinitamente piatta, che ondeggiava leggiadra come se fosse davvero la superficie di un oceano strano creato da uno di quei pittori estrosi che si divertono a giocare con i colori.
Il sibilo sottile del vento spazzava il paese, agitando piccoli mulinelli di polvere, e piegava le spighe di grano nei campi fino a stenderle sul terreno, come biondi capelli solcati da un invisibile pettine.
Fabio aveva detto di avere una notizia sensazionale e noi morivamo dalla voglia di ascoltarla.
“Mio zio ha scoperto un posto fantastico per pescare!”, annunciò Fabio, che non stava più nella pelle, “L’acqua è fresca e cristallina e ci sono pesci a non finire!”, aggiunse poi, scandendo con malcelata calma le parole, per meglio dispensare al popolo il verbo di cui si era appena autoproclamato messia.
Io, Mario e Adolfo ci guardammo negli occhi: se le cose stavano così, non dovevamo perdere una simile occasione! Sarebbe stata la battuta di pesca del secolo, ne avremmo presi così tanti da non sapere più dove metterli!
Però c’era un problema. Il Giardino dell’Eden si trovava ad oltre 20 km, e lo zio di Fabio ci era andato con la 127. Noi avevamo solo le biciclette.
“E’ troppo lontano...non ce la faremo mai!”.
Fare finta che tutto andava bene era sempre stato un nostro innegabile talento: “Ma no! Sono solo 20 km? E poi…pensate a quanti pesci prenderemo!”.
“Si…però…poi dobbiamo anche tornare indietro…”.
Si stava rischiando lo scontro fisico. Mario chiese la parola.
Mario non era stupido, tutt’altro, è che, ogni tanto, aveva la sfortuna di pensare.
Non si smentì neanche quella volta perchè, dopo essersi schiarito la voce, formulò il seguente teorema: “Se partiamo presto e pedaliamo svelti possiamo essere indietro per cena!”.
Lo fissammo con lo stesso sguardo di un canguro chiuso in una stanza con il soffitto basso.
Era più facile a dirsi che a farsi, ma l’incoscienza e la voglia di correre, di esplorare dei nostri undici anni e il brivido di provare un’esperienza nuova ebbero la meglio.
Il progetto venne quindi approvato all’unanimità e l’assemblea si sciolse fissando la partenza per l’immediato dopopranzo.
Praticamente, più che pranzare ingurgitammo a imbuto e, in pochissimo tempo, eravamo già radunati sotto l’albero, tutti pronti.
Tutti, tranne Adolfo e Fabio che, nello stupore generale, come niente fosse si presentarono a piedi.
Spesso mi chiedevo se certi individui, da piccoli, non fossero solo caduti dal seggiolone ma fossero anche rimbalzati parecchie volte.
Me lo chiesi anche quella volta, quando i due appiedati si decisero finalmente a parlare.
Adolfo, nella fretta di rincasare per il pranzo, era piombato in cortile a tutta velocità ma aveva calcolato male la distanza di frenata e si era schiantato contro il muro. Ma non furono le ferite e le contusioni che ne derivarono ad impedirgli di risalire in sella, quanto il cerchione anteriore, perfettamente trasformato in un ovale.
Fabio, dal canto suo, ebbe una disputa con sua mamma che gli requisì la bicicletta per andare a fare la spesa. Il tira e molla finì prestissimo, perché, casualmente, spuntò un battipanni e il povero Fabio, per evitare pericolosi traumi, dovette dichiararsi sconfitto e appiedato.
Già la distanza era siderale, con sole due sole bici come avremmo fatto?
“E’ meglio se rinunciamo e ci andiamo quando tutti e quattro…”.
“Non se ne parla neanche! Ma non avete sentito come è bello quel posto??”.
“Sarà anche bello…ma...con due sole bici come facciamo??”.
La diatriba durò ancora qualche minuto ma alla fine l’idea di rinunciare all’impresa o, perlomeno, rinviarla a tempi migliori, non venne neppure presa in considerazione. La sete di una nuova avventura ci stava letteralmente cuocendo vivi e noi non vedevamo l’ora di ammirare a tutti i costi quel posto così favoloso.
Non importava il caldo, non importava la distanza: quando la vita è l’estate stessa le gambe sono ruote instancabili che pedalano tra discese e salite mentre suoni e rumori, sempre uguali eppure sempre diversi, fanno da contorno a quella paura che un po’frena ma della quale non si può fare a meno perché è mescolata alla curiosità che spinge, spinge forte, come si spingono forte i pedali per andare sempre più veloci.
Così tirammo a sorte per stabilire le coppie, quindi ciascuna coppia tirò a sorte per decidere i turni ai pedali.
Poi partimmo, tuffandoci nell’immensa campagna flagellata dal sole, torturati, oltre che dal carico supplementare, anche da un caldo che avrebbe steso un dromedario.
Le ultime case del paese diventarono ben presto sagome sbiadite rese evanescenti dalla calura, come tanti lontani miraggi. Nel cielo, carri di nuvole spandevano inchiostri di ovatta vaporosa e le chiome degli alberi danzavano sulle ali di una melodia incandescente.
Pedalammo e sudammo fino a liquefarci ma, finalmente, con la lingua che sfiorava l’asfalto ed un principio di infarto generale, arrivammo. Ed una volta arrivati fummo ampiamente ripagati di tutte le nostre fatiche.
L’acqua del torrente era fresca e limpidissima e c’era una bella spiaggetta di sabbia soffice, proprio a ridosso di un ombroso boschetto di robinie.
Eravamo soli, ad anni luce di distanza da qualsiasi paese. Immersi nella natura ci sentivamo come gli esploratori che avevano appena scoperto l’Eldorado, padroni di un mondo sconosciuto, tutto nostro, che non avremmo condiviso con nessuno.
Il mormorio dell’acqua ci teneva compagnia, regalandoci una piacevole sensazione di fresco, e ricordava lontane spiagge di sabbia finissima con palme, onde altissime e tante ragazze in costume.
Per prima cosa ci facemmo un bel bagno rinfrescante, per toglierci di dosso il sudore e la polvere della lunga pedalata. Lo facemmo nudi, dato che nessuno di noi aveva mai posseduto un costume e quella fu un’esperienza fantastica, bellissima ed indimenticabile, malgrado da adulto sia poi riuscito a sguazzare nei mari di mezzo mondo.
Poi ci mettemmo finalmente a pescare e i pesci facevano a gara ad abboccare. Il cestino si stava riempiendo a vista d’occhio e quando saremmo tornati tutto il paese sarebbe morto di invidia.
Ci stavamo divertendo come matti quando quella pace idilliaca fu squarciata da una tremenda esplosione.
“Il guardiapesca!”, urlò Fabio gettandosi a capofitto tra le robinie. “Adesso ci impallina!”, piagnucolò Mario che, con Adolfo, si era appiattito in mezzo ai cespugli, come una sogliola sul fondo del mare.
Avremmo tanto preferito che fosse veramente il guardiapesca, ma non fu così.
La verità fu molto più semplice e ci mise solo un paio di secondi per rivelarsi in tutto il suo orrore.
La gomma della bici di Mario, lasciata troppo al sole e complice un copertone liso e cucito con lo spago del salame, era scoppiata.
Era destino che le cose sbagliate ci venissero tutte giuste.
“Dobbiamo per forza tornare indietro!”.
“Ma...come...proprio adesso?”.
“Si, proprio adesso! Se non te ne sei accorto, abbiamo una bici sola…!”.
“Ma ci stiamo divertendo un sacco…e…poi guardate quanti pesci...!”.
Con una sola bicicletta per ritornare ci avremmo messo un’eternità e questo l’avrebbe capito anche un neonato. Per contro, abbandonare, prima del previsto, quel posto da favola appariva come una sconfitta umiliante, un perfetto fallimento, dopo tutta la fatica che avevamo fatto per arrivarci.
Il consiglio di guerra fu abbastanza teso e animato ma, alla fine, malgrado il torrente ci stesse tentando come le sirene di Ulisse, capimmo tristemente che non avevamo più le carte in regola per rimanere.
Facemmo armi e bagagli e ci preparammo per rientrare di corsa, si fa per dire, alla base.
In quattro su di una sola bici, dovevamo affrontare i 20 chilometri e passa che ci separavano da casa.
Mi ricordo che Adolfo, che era il più piccolo, aveva scampato i pedali perché, fisicamente, non ce l’avrebbe fatta a pedalare per quattro e così se la spassava seduto sul manubrio, con le gambe a penzoloni a cavallo della ruota anteriore, portandosi in spalla tutte le canne da pesca.
Gli altri posti disponibili, vale a dire, canna, portapacchi e sella e ce li alternavamo io, Fabio e Mario.
Chi era di turno sul portapacchi teneva la bicicletta bucata di Mario, chi era sulla sella, ovviamente, pedalava, mentre chi era sulla canna non faceva nulla ma, intanto, spediva tante belle preghiere all’Onnipotente perché, almeno Lui, non ci abbandonasse.
Conciati in quel modo pedalare era veramente difficoltoso: la bicicletta cigolava come un cancello in un film horror e la velocità di crociera non superava il passo di lumaca con l’artrosi. Ma la cosa durò poco perché, dopo neanche un paio di chilometri, anche l’Onnipotente ne ebbe abbastanza e la mia bici, con le gomme sovraccaricate all’inverosimile, bucò lasciandoci tutti a piedi nel bel mezzo di quel Sahara agreste.
La calotta del cielo sopra di noi era così azzurra da raggiungere le tonalità dell’argento e la striscia d’asfalto era un braciere rovente.
I cellulari a quel tempo non esistevano. In qualche bar c’era il telefono a gettoni, ma i gettoni non avevano mai fatto parte del nostro budget e, del resto, non sarebbero serviti a nulla dato che nessuno di noi in casa aveva il telefono.
Iniziammo mestamente a camminare mentre la mia gola si stringeva come se avessi ingoiato una manciata di sabbia.
Le suole di gomma delle nostre scarpe imprimevano tristi prismi sull’asfalto punteggiato da pozzanghere di arsura, allucinazioni liquide che diventavano bocche di catrame esalanti olezzi di tetra siccità.
Era ormai notte fonda quando quattro fantasmi fecero il loro ingresso in paese.
L’aria tiepida era come una carezza sulla pelle e spandeva il profumo soave dei campi coltivati che si perdevano verso l’orizzonte buio, mentre le stelle cadenti giocavano a bowling con quelle rimaste appese nel cielo color carbone.
“Finalmente è finita!”, esclamò Fabio trionfante, al limite dello svenimento.
A quel punto Adolfo, che fino a quel momento aveva camminato e sudato in silenzio, salì in cattedra e, indicando un gruppetto di persone che stazionava in fondo a via Soliggia, spiegò che, a quanto pareva, non era finito proprio un bel niente.
I nostri genitori, non vedendoci rincasare per cena, ci avevano cercati dappertutto ed ora, divorati dall’angoscia e dalla rabbia, ci stavano aspettando per illustrarci certi argomenti che andavano dai normali battipanni fino ai bastoni e alle verghe fatte con i rami dei salici.
Via Soliggia, baciata dalla sottile brezza notturna, si trasformò nella polverosa strada principale di Tucson allo scoccare del fatidico mezzogiorno di fuoco e, in breve tempo, fu fatto scempio dei nostri corpi già consumati dalla lunga marcia.
In via Soliggia tornò a regnare il silenzio, come in una chiesa senza fedeli, rotto dalla sinfonia delle rane che veleggiava leggiadra sui campi.
Fabio si massaggiò per bene il fondoschiena e sospirò: “Ne abbiamo prese tante ma, almeno, abbiamo anche preso un sacco di pesc…”.
“Già, a proposito...”, lo interruppi io, che mi sentivo bruciare come se mi avessero gettato addosso un mastello di lava bollente, “I pesci?...dove sono...?”.
“Che ne so! Dovevi prenderli tu!”.
“Io?? Io dovevo prendere le canne da pesca! I pesci li doveva prendere lui!!”.
“Ma se io avevo le bici...!”.
Dimenticammo in un lampo lacrime, bastonate e contusioni e ci bloccammo, tutti e quattro, come se fossimo stati colpiti da una paresi improvvisa.
Nella fretta di ripartire nessuno aveva pensato al cestino e i pesci erano rimasti là.



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Opera scritta il 02/11/2021 - 15:13
Da Paolo Guastone
Letta n.336 volte.
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su 1 votanti


Commenti


Troppo buona, come sempre. Grazie per il bel commento. Sono contento che il racconto ti sia piaciuto!

Paolo Guastone 03/11/2021 - 15:00

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In tutta la semplicità di questo racconto emerge decisamente una grande capacità descrittiva dell'autore che conduce con curiosità il lettore fino all'ultima parola.
Complimenti, un racconto che coinvolge.

Maria Luisa Bandiera 03/11/2021 - 13:37

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