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Reprobi Angelus 5.12

Caput quinque
Le dieci stanze


Nonna mi raccontava che la pioggia sono le lacrime degli angeli.


“Aliquam tempor ante…”
(Qualche tempo prima…)


Avevano da poco lasciato il Palazzo sull’Acqua, ammutolite e incredule. Lobella desiderava solo le braccia di Eadweard, del buon vino e le chiacchiere tra amici al crepitio del fuoco.
Benedetta fluttuava. Nessuna delle due fino a quel momento si era accorta che la ragazzina era rimasta indietro. <Benedetta, mio Dio… mia figlia…>.
-Mamma calmati, a sinistra dietro di voi sulla panchina-. <Perché hai quel libro…>.
-Ascoltate: la prima, la Stanza della Tristezza cola tanta fuliggine dai muri quanto sono cupi i pensieri di chi cercherà di attraversarla… non ce la farà mai. Quell’uomo ha il cuore in frantumi-.
Benedetta sentì come il calore di una luce accanto a lei <<Dai a me il libro, tu e Lobella tornate alla locanda. Vi raggiungeremo lì io e Samaèl. E… vi voglio bene. Andate…>>.
-Benedetta…-. <Amica mia, non farlo…>.
Benedetta era già oltre la Casa Bianca, oltre lo sguardo smarrito delle compagne. Oltre quanto di più inconcreto potessero concepire. Il tomo le indolenziva le braccia ad ogni passo, come se le pagine aumentassero. Quando entrò, le pareti sudavano catrame. Samaèl ne era immerso fino al costato. Agli occhi di Benedetta appariva come un cigno ferito. Era inginocchiato, e piangeva caligine. <<Angioletto, su alzati… mi devi delle spiegazioni>> Benedetta cercò di scuoterlo.
“Più di qualcuna… visto che sei qui. Risponderò alle tue domande. Tuo figlio aveva solo bisogno di sostegno finanziario, l’appoggio della sua splendida madre farà il resto. Ora mi chiederai come facessi a perorare lui e ad essere alla locanda a vegliare su di te…”.


Una digressione a questo punto è d’obbligo. Prima inzupperò il croissant nel caffè, cercando di guardare oltre la penna.


“Quando trovai Lucifero, non voleva sentire ragioni. Il suo disegno era ormai avviato, e io non ero che un ostacolo da rimuovere. Il mio ardimento non bastò. E mi uccise”.
<<Senti questa, ora mi dirai… mio Dio…>>. “Se vengo ferito a morte, da me si manifestano altri due angeli. Il vecchio della locanda mi ospitò con Adamantina, ci aiutò ad avere una vita normale. Ma una sera ci sentì parlare e lo scoprì, fu troppo per lui. Mi cacciò, continuando però ad occuparsi di lei”. Benedetta si stupì di avergli preso la mano <<Ripensa a quei giorni felici, e varchiamo questa porta. Non ti permetterò di morire ancora>>.


Sorvolerò sulle successive stanze, almeno per ora… Avidità, Onnipotenza e Vanagloria, Insaziabilità e Gelosia. E Immobilismo. Comportamenti non perpetrati dalla creatura il cui indice asciutto pareva ora indicare l’uscio dirimpetto a un grosso quadro ottocentesco.
<<Nel dipinto… tu con lui, il demonio?! Sei espressivo… non preoccuparti, nel tomo si dice che l’ottava stanza è l’Ingordigia: hai mai visto Anche gli angeli mangiano fagioli? …non badarci, quando sono impaurita dico cose sciocche>>. Benedetta iniziava a provare una forte dolenza alla schiena, come se potesse sentire la sofferenza di Samaèl per la lacerazione.
<<La nona stanza, l’Iracondia>>. Un enorme portone ne impediva il passaggio. “Entrerò da solo. Ciò che vedrò potrebbe metterti in pericolo”. <<Demoni, spiritelli e folletti non saranno peggio di ciò che abbiamo attraversato fino ad ora>>. “…in pericolo da me”. Questa volta tacque. Pensò al figlio, e tacque. Samaèl appoggiò la mano all’antico portone che si spalancò. Varcò la soglia.
Quel che accadde cominciò a scriversi nel tomo. Un varco si spalancò nel pavimento, così profondo che appoggiando l’orecchio Samaèl al suo interno poteva sentire non una voce umana gridare dal dolore, ma le urla dei dannati. Si sentì stringere dentro. Avrebbe voluto fare qualcosa, ma lo trascinò via il pianto di un bambino appena nato. Giaceva a terra da solo sulla soglia. Così lo prese e lo strinse a sé, ma l’essere vampirico tornò alla sua vera forma… se una voce calda non avesse distolto il Tiyanak, la testa di Samaèl avrebbe misurato la profondità della voragine <<Ti voglio bene angioletto>>. Benedetta non poteva credere che esistesse tanta malvagità, ma stando all’inchiostro lui era vivo. Mancava davvero poco. Un’ultima stanza.
Nel libro era chiamata Locus. La Stanza dove tutto cessa di esistere, e dove esiste ogni cosa. Dove la paura diviene inquietudine, e la follia indossa le vesti del senno. Quando lo raggiunse, la pioggia dai suoi occhi pareva volesse ingannarlo… sembrava solo acqua ed invece era ricordo: Adamantina gli stava morendo tra le braccia. Avrebbe voluto chiamarlo, Benedetta. Dirgli Samaèl non è reale, ma sembrava così tanto lo fosse. “L’ho lasciata andare nell’avvoltolare ingiallito di una foglia. L’ho lasciata andare in equilibrio su una lacrima, inafferrabile come un bacio che dalla bocca scivola sulle pagine sfogliate dal vento”. <<Samaèl…>>. “Non temere se piove… piove sempre quando qualcuno ti manca. E’ ora di andare”.


Giurerei di aver udito i bucaneve alla finestra mormorare di una lotta impari a occidente, in cui Dis trattenne Samaèl fin a che non fu oppresso da un sole morente.


Samaèl chiuse gli occhi… il cippo era al suo posto, e lo scavo fatto. Accarezzò i cenci della veste vermiglia, e si sdraiò accanto al suo unico amore. E sentì il calore di una luce accanto a loro ‘Aspetta Morte, lascia che abbracci questo mio figlio’ una figura di luce in una postura innaturale, la testa tra le braccia pesava sul cippo.


Un uomo sotto un cappello plumbeo come il cielo su una Volga nera a fari spenti nella sera percorreva la statale poco trafficata. Alla locanda Della Cannella, nell’angolo rischiarato dalla finestra <<Ciao Adamantina, mi chiamo Benedetta. Io so chi sei… me l’ha detto un angelo>> sorrise <<Il suo cuore deve trovare la strada… Un giorno, ne sono sicura, farà ritorno a casa>>.


Riposi al suo posto il tomo. Il caffè era diventato freddo, come l’aria che arrivava dalla statale deserta oltre la landa. Aveva iniziato a piovere sui bucaneve alla finestra. Sullo scrittoio pochi versi con l’incertezza dell’autunno, macchiati di miele che non mi ero accorto di avere scritto.
Guardai la sedia nell’angolo, e poi ancora la pioggia. E forse pensai che in notti come questa Dio diventa poeta.
(in tomo ira, somnia et nihil)




-Benedetta a un certo punto cita la pellicola del 1973 “Anche gli angeli mangiano fagioli” interpretata tra gli altri dall’indimenticato Carlo Pedersoli




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Racconto scritto il 25/04/2022 - 19:51
Da Mirko D. Mastro
Letta n.346 volte.
Voto:
su 1 votanti


Commenti


Grazie Maria Luisa

Mirko D. Mastro 26/04/2022 - 08:10

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Forse l'ho già letto a suo tempo o forse no, mi è piaciuto molto il passaggio: "... la stanza dove tutto cessa di esistere, e dove esiste ogni cosa. Dove la paura diviene inquietudine e la follia indossa le vesti del senno."
Ovviamente insieme all'enigmatico racconto.

Maria Luisa Bandiera 26/04/2022 - 07:59

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Grazie gentili signore per le vostre parole e la costante presenza

Mirko D. Mastro 26/04/2022 - 05:19

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E da Giuliano Gemma (Anche gli angeli mangiano fagioli)...
C'è poesia, ce n'è, ma è un racconto molto tenebroso e "forte", per me, almeno. Magistralmente scritto.
La stanza dell'Immobilismo mi ha fatto pensare agli ignavi...
Complimenti, Mirko!!!
Buona notte

Marina Assanti 25/04/2022 - 22:31

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Ci sono frasi all'interno che son stupende tipo...la follia indossa le vesti del senno e altre che non sto qui a riscrivere..mi piace questo romanzo a puntate mi piace per quanta poesia ci metti dentro.
Una mirabilia..come gli architetti antichi di bologna.

Anna Cenni 25/04/2022 - 20:26

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