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Il quinto piano

Il quinto piano.


“Una mela al giorno toglie il medico di torno.
Basta avere una buona mira.”


SIR WINSTON CHURCHILL



Ultimamente il mio sonno è stato talmente agitato che ha mandato in tilt il memory foam del materasso appena comprato. Il povero poliuretano flessibile si è subito stancato di tenere il conto delle centinaia di posizioni che cambiavo continuamente durante la notte. Colpa di quei carboni ardenti che cercavano di uscire dal mio sedere. Tutte quelle vene collassate già da un po' avevano stretto d’assedio il mio orifizio senza lasciar passare neanche un filo d’aria. Figuriamoci quei carboni accesi. Il mio medico curante durante l’ultima visita, mentre ero ancora a culo pizzo sul lettino traballante ha pontificato con sicumera: “non ci sono alternative, l’unico rimedio che Le resta è l’intervento chirurgico”. Allora, mortalmente impaurito, dopo un laborioso consulto sia su internet prima che poi anche e soprattutto con i vicini di casa, amici e conoscenti, alla fine ho scelto una struttura importante dove il sacro e il profano viaggiano a braccetto nella città eterna. Quindi di mattina molto presto mi avvio in preda alla disperazione sulla strada del patibolo verso il mio triste destino. Il vagone di seconda classe è semivuoto tranne una coppietta che si sta sbaciucchiando famelicamente. Lui è un adolescente pieno di capelli, anelli e orecchini. Lei avrà avuto almeno il doppio dei suoi anelli ed orecchini. Ed anche dei suoi anni. Ci danno dentro con le lingue guizzanti come se per loro non ci fosse più un domani. Come se si aspettassero di trovare alla fermata il marito di lei armato e deciso a farla finita una volta per sempre con i due sbilanciati amanti.
Io resto in piedi ad occhi chiusi appoggiato al freddo finestrino cercando refrigerio per le mie chiappe doloranti.
Quando li riapro, gli occhi, sono seduto su un letto del grande ospedale che profuma di detersivo alla violetta. La stanza è piena di sole e guardo una mosca che ronza allegra come una motoretta a pieni giri su una strada consolare. Il tempo di un’altra chiusura d’occhi, giusto una strizzatina, e quando li riapro tutti cisposi (forse sarebbe il caso di tenerli un po’ chiusi sti cavolo di occhi) mi ritrovo steso come un baccalà illuminato dalla luce al neon in quel letto che adesso ha le sponde alzate. È pomeriggio inoltrato e il sole non c’è più. E neanche la mosca. Ho l’impressione che il dottore anziché operarmi abbia passato tutto il tempo a prendermi a calci nel culo. Seguendo l’ormai consueto copione, richiudo gli occhi e mi riaddormento sfruttando gli ultimi effetti dell’anestesia. Quando mi risveglio è mattino e fa freddo e penso che il dottore durante la notte abbia proseguito con i suoi poderosi calci nel mio didietro. Questa volta, però, aiutato da una decina di nerboruti infermieri.
Poco dopo (sarà l’alba?) alla faccia della privacy vengono spalancate le porte della camerata e come in una parata militare fa il suo ingresso un carrello-armato semi- cromato con tutto l’occorrente per le visite dei pazienti. Dopo qualche attimo di suspense (manca solo il rullo dei tamburi) illuminato da una luce divina arriva lui “l’immenso”, il professore con il seguito dei suoi fidati scudieri. Ha un viso fresco di rasatura e profumato di costoso dopobarba. Il nodo della cravatta è così grosso che ricorda la gomena usata a Ventotene per tenere ferma l’ancora del traghetto di linea. Mi viene spontaneo di pensare che fuori dal corridoio ci sia parcheggiato il cocchio d’oro massiccio del “venerabile”.
Finiti i conciliaboli delle visite e medicazioni “l’altissimo” esce dalla camerata con le braccia incrociate sul petto attraversando due ali festanti, adoranti e ossequiose degli “aiuti”, degli infermieri e un gruppetto di laureandi alle prime armi. Mi sembra addirittura di udire la musica trionfale di una fanfara che intona l’Aida, ma forse è l’effetto dell’ennesimo antidolorifico che mi hanno appena inoculato. Lui adesso è già fuori dallo stanzone e starà salendo sul suo cocchio celeste per volare nella asettica sala operatoria pronto a rifare culetti nuovi di zecca come quelli dei neonati.
Mentre sono indeciso se mordere il cuscino o buttarmi direttamente giù dalla finestra il mio odiato direttore fa capolino dalla porta socchiusa. A quella apparizione, mosso da un travaso di bile, ho quasi strillato (forse anche per il dolore della ferita appena smucinata): signore, che bello vederla… se fosse arrivato qualche minuto prima avrebbe assistito in diretta alla pulizia della ferita tra le mie chiappe. Lui, tormentando la falda del finto Borsalino mi ha risposto con aria semiseria: "La mia solita sfortuna, per colpa del traffico mi sono perso uno spettacolo niente male. Forse però è stato meglio così. A cena mi aspetta una bella bistecca al sangue e non vorrei certamente ..." dice mimando un malriuscito conato di vomito.
Gli rispondo con finte lacrime agli occhi che risplendono d’ironia “dottore La ringrazio per essersi scomodato a venire sin qui apposta per me." Ma lui con un candore disarmante (forse anche lui starà fingendo) mi risponde che è venuto sin qui solo per fare visita al responsabile dell'ufficio vendite (Ecco! Volevo ben dire) "… quel rompiscatole è ricoverato in terapia intensiva per lievi problemi cardiaci. Considerato che mi avanzava un po' di tempo... ho pensato vuoi vedere mai che con un colpo solo ne faccio fuori due" e giù con quella solita risatina nervosa. Poi mentre guarda di sfuggita fuori dalla finestra dice che il mio posto purtroppo è sempre là che mi aspetta e aggiunge (adesso la risata è asinina) "anche la comoda sedia girevole è lì ma la ciambella gonfiabile dovrà portarsela lei". Dopo che l’ho accompagnato all’ascensore (sperando ardentemente che cadesse) muovendo le gambe a scatti come un robot, mi sono trattenuto un po' nel corridoio del primo piano “reparto Psichiatria clinica d’urgenza”. Oggi c’è la semifinale della IV edizione del “Torneo con le padelle dei malati”. Usano un'arancia come pallina.



Durante la partita il cicalino del letto n.12 ha suonato ripetutamente. Per la verità mi hanno detto gli altri spettatori che ha suonato ossessivamente per tutta la mattinata e adesso che ci penso lo abbiamo sentito anche noi su dal terzo piano. Il paziente del letto n.12 è fermamente convinto che sta tornando a casa in pullman. Perciò preme furiosamente e senza soluzione di continuità il pulsante di chiamata infermieri. Il poverino tenta disperatamente di prenotare la fermata a richiesta di quello che crede essere un bus. Gli infermieri giovani e annoiati si convincono che è giunto il momento di preparargli un altro "Copacabana". Dopo aver bevuto con una cannuccia color verde marcio il micidiale cocktail di barbiturici il rompiscatole si dimentica completamente non solo della fermata del pullman fantasma ma anche di tutto il mondo circostante. E aggiungo soddisfatto, pure dell’animaccia sua perché ci sta facendo soffrire le pene dell’inferno. Infatti adesso strabuzzando gli occhi è caduto in un sonno letargico e profondo. L’ultima volta con mezzo Copacabana ha dormito per trentasei ore di fila. E senza mai fare neanche la pipì. Intanto gli infermieri-atleti sono indecisi se continuare la partita o mangiarsi l’arancia bella che frollata.
È passata quasi una settimana (ho avuto qualche complicazione emorragica) e mi sto abituando molto bene e in fretta alla vita del paziente ospedaliero.
Mi piace molto gironzolare per il nosocomio e nonostante i chiari problemi di deambulazione che ancora mi affliggono preferisco restare il meno possibile nel mio reparto di “unità operativa di proctologia”. I miei coinquilini sono tutti lugubri e antipatici e super concentrati sui loro sfinteri anali. Soprattutto il mio vicino di letto che, a dispetto della doppia legatura subita in ano scopia, scorreggia come una locomotiva a carboni. Se quei peti magniloquenti uscissero adesso dal mio sedere farebbero volare i punti in caucciù fin sopra l’eliporto dell’ospedale.
Durante l'orario delle visite, poi, per non veder le torme di visitatori che si accampano bivaccando sui letti dei malati (fregandosi anche l’unica sedia a disposizione del mio letto) vado a sedermi o meglio, considerati i miei problemi di deretano, mi sistemo in piedi davanti alla TV su in Neurochirurgia infantile al quinto piano e guardo i cartoons insieme ai bambini. Quando gli ho indicato di nascosto dove tenevo la “bua” mi hanno accettato di buon grado come se fossi uno di loro.
Adesso è l'ora della cena e come faccio da qualche giorno aiuto la signorina Marafini a spingere il grosso carrello delle vivande. Lei è sempre perfetta, inappuntabile. La sua chioma leonina, di un colore che ricorda la volta celeste, emana un profumo acido di “messa in piega” fatta in casa. Non sono ancora stato autorizzato a distribuire le fette di pane-paglia imbustate nel cellofan. Devo solo spingere, ma ci sto lavorando. Per adesso sono riuscito (di nascosto da miss messimpiega) a consegnare qualche mela imperlata di umidità per il lungo tempo trascorso al buio nello scomparto frigorifero del carrello.



Finita la distribuzione mi avvio giù nell'atrio del bar dei visitatori e ambiando come un cavallo lungo il corridoio “percorso blu” cerco di non fare strusciare più di tanto le natiche l'una contro l’altra. Ho il terrore che possano aprirsi i punti della ferita. Questa magnifica ferita che il professore poco prima ha mostrato soddisfatto al suo codazzo durante la visita mattutina di controllo pazienti. Il mio culo come per incanto è diventato il telaio per il tombolo dove il prof. ha ricamato con mani sapienti i punti di sutura quasi fosse un merletto a punto e croce o a punto erba, vanto della migliore suora ricamatrice di un monastero di benedettine.
Decido di prendere un ascensore privato di quelli usati per il trasporto barelle. Sembra il retro di un grosso camion vuoto con le luci di servizio traballanti. Dalle pareti a giorno bisognose di una energica spolverata, si intravede una sinuosa colonna di fumo bianchissimo che fuoriesce da un enorme tubo di alluminio. Credo che si tratti dello sfogatoio delle cucine. Il fumo portato dal vento sfiora l’ascensore ma non si sente nessun profumo o nessuna puzza chissà.
Il bar è enorme, luminoso e superaffollato. C’è gente con la faccia scavata che si regge traballante sulle stampelle o che si trascina dietro l’asta per le trasfusioni con un cornetto in mano dal quale cola densa la marmellata con lo 0, 5% di mirtillo. E ci sono anche le facce pensierose e preoccupate dei familiari desiderosi di scappare via da quel luogo di sofferenza. Non prima però di essersi strafogata una pizzetta mozzarella e pomodoro.
David anche oggi è là come nei giorni precedenti. Parla abbastanza bene l’italiano con una piacevole pronuncia masticata. Dopo tanti anni che stò nel vostro paese ci mancherebbe… mi dice sorridendo mentre beve una fumante tazza di caffè lungo. È così magro che sembra scomparire tra le righe nere e bianche del pigiama di flanella. Così a prima vista potrebbe essere benissimo un sopravvissuto ad un campo di concentramento capitato per ironia della sorte in un altro luogo di dolore e sofferenza.
L'accordo preliminare alla nostra nuova “conoscenzaquasiniziodiamicizia” è stato di parlare solo di cose belle.
Allora io gli ho raccontato subito della mia fortuna di trovare immediatamente un posto libero dove parcheggiare l’automobile. Gli ho detto che la cosa strana è che anche nei luoghi più infernali con le macchine in terza e quarta fila, quando arrivo io come per incanto si libera un posticino. Questione di culo. E forse, ho aggiunto sorridendo, è per questi continui sforzi di trovare parcheggio che mi sono uscite le emorroidi. Lui mi ha risposto serio, senza cogliere l’ironia, che mi sbaglio perché per quelle dipendono solo ed esclusivamente da una questione di alimentazione. Vorrei rispondere (anche io senza ironia) che a prescindere dal cibo scadente che sto ingurgitando ultimamente, potrebbe trattarsi di una infiammazione dovuta al diabete mellito con il quale convivo da qualche anno.
Ma me ne guardo bene dal dirglielo. Solo cose positive nei nostri colloqui.



Tra qualche giorno è Natale e ieri in pediatria c'era un insolito fermento anche tra gli infermieri. Ci hanno distribuito cioccolata calda mentre guardavamo rapiti il film " Il canto di Natale". Stavo in ginocchio a cavalca poggio quando un bambino con la testa bendata si è arrampicato silenzioso sulla mia schiena e si è sdraiato comodo. Verso la fine del film si è addormentato in quella strana posizione rischiando di cadere.
Vorrei fare domanda per vivere il resto della mia vita in pediatria, insieme a loro. Ma temo che mi diranno che non è possibile.
Corro (ehm, è solo un modo di dire…) in proctologia perché è l’ora del giro di controllo del professore.
Il tempo di stendermi sul letto che adesso è senza più le sponde che lui arriva leggiadro " E allora caro il mio signor Lei (bah cosa avrà voluto dire) il suo tubo di scappamento è stato riparato ed è pronto per ricominciare a scoppiettare” ( risatina a scatti con la mano davanti alla bocca dalla dentatura porcellanata) Domani uscirà da qui con un buchetto che farà invidia a principi e sovrani” e giù anche lui con una risata questa volta equina simile a quella del mio odiato Direttore.
Allora io facendo due più due quattro, in base a quello che ha appena detto il prof., deduco che il sangue blu dei principi e sovrani probabilmente è dannoso per le pareti vascolari delle emorroidi. Mi sono riproposto di dirlo a David ma poi mi sono ricordato del giuramento.
Al bar della mensa ho comprato due panettoncini per festeggiare il Natale insieme al mio amico. Ma non l'ho trovato al suo posto. Ho chiesto in giro agli altri scappati di casa, i cosiddetti malati cronici che stazionano pigri tra i tavoli del bar, ma di David nessuna notizia.
Neanche Mario il responsabile dell'accettazione è riuscito a trovarlo. Pestando lentamente sulla tastiera del computer con l’enorme indice a forma di salsicciotto mi ha comunicato sussurrando e guardandosi in giro circospetto che tra i ricoverati non esisteva nessun David Cohen.
Quindi santissimo iddio siamo giunti alla conclusione che il tenero David era un infiltrato esterno.
Di giorno se ne stava seduto con il suo pigiamino a righe bianconere al calduccio nel bar. E poi la notte forse andava a dormire tra i banchi della cappella al piano terra. O forse addirittura nella sala mortuaria ho detto io. “Al piano -1” ha aggiunto precisando serio Mario.
Forse avrà deciso di tornarsene a casa sua : Avrà avuto nostalgia della sua stamberga dice Mario o forse di Auschwitz azzardo io sdegnosamente.
Vado via ancora agitato e sconvolto per la scoperta della doppia vita del mio ex amico David o come vattelappesca si chiamerà veramente. Torno mestamente alla mia camerata accogliente come un capannone agricolo in disuso, ma prima però faccio la mia solita tappa di controllo al quinto piano.



Guardo le porte tappezzate con i disegni dai mille colori, quasi fosse l’ingresso gioioso di una scuola elementare. Sulla parete di destra c’è un grande albero della vita fatto con il sughero, con i nomi dei tanti bambini che hanno vinto la loro prima battaglia.
Adesso quelli che sono dentro dormono e allora mi sento più tranquillo nonostante che nel mio didietro ci sia ancora qualche carbone ardente.




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Racconto scritto il 22/07/2023 - 19:43
Da fabio carbone
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