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11 Settembre 2001

L’avevano rapita tre giorni prima, nei pressi del Emirates Office di Dubai, di ritorno dal set in cui si era concluso il suo documentario. Erano mesi che faceva riprese, raccoglieva fotografie e testimonianze sull’attentato del 1993 al World Trade Center. Ricordava molto bene le parole del direttore di Al Jazeera: ti perseguiteranno con ogni mezzo lecito o illecito, se realizzerai questo film. Devi augurarti di non arrivare nemmeno a un chilometro dalla verità. Ma non le aveva detto che sarebbe stata uccisa prima di averlo montato. E non riteneva di aver scoperto abbastanza. Il suo sequestro era l’unica cosa che le faceva sospettare il contrario. Quegli uomini erano lì perché, come lei, conoscevano verità scomode? Avevano ficcato lei e l’altra donna sotto a una doccia perenne, tiepida, dentro a un quadrato due metri per due. I polsi legati dietro alla schiena. Vestite. Si decise ad aprire gli occhi e li orientò sulla barriera d’acqua. La figura di Carla, l’italiana, appariva scontornata, al di là del muro di pioggia. Aveva i bicipiti di un peso medio che non ha mai perso un round. «Sei giordana»? udì. Rania si limitò ad annuire. «Sei bona, ti faranno la festa, prima di ammazzarti». Rania la fulminò con lo sguardo: «Odio le feste». Il sorrisetto le si spense lentamente. Poi un rumore metallico. Le ultime gocce caddero come rintocchi, prima di piombare le due donne nel silenzio fradicio dell’attesa. Una figura sottile si affacciò. Il fucile a tracolla, il volto coperto, disse: «Alzatevi in piedi. Tocca a voi». Le due donne furono scortate lungo un corridoio asettico. I loro passi gocciolanti si alternarono alla marcia sincrona di uomini che procedevano nella direzione opposta trascinando dei grossi sacchi neri, etichettati. Forse contenevano cadaveri. Alla fine del corridoio, una porta d’acciaio. «Entrate e camminate. Non tentate la fuga» disse l’uomo armato. Rania e Carla finirono in un’area sabbiosa circondata da mura di cinta: l’arena. Furono investite da urla disumane. Sul versante opposto era scoppiata una rissa tra i prigionieri. Si erano divisi in due schieramenti distinti tra arabi e occidentali. Si accusavano gli uni con gli altri. Picchiavano duro, a mani nude. Uomini di colore, teutonici, meticci, anziani, di mezz’età. Alcuni portavano giacche sportive o camice di seta ridotte in brandelli. Uno usava la cravatta per strangolare l’avversario. Altri erano seminudi, abiti logori, scalzi. Tutti sequestrati mentre facevano altro, ovunque nel mondo. Ora resi ciechi dalla disperazione. Rania era sconvolta: col suo lavoro aveva rischiato la vita molte volte, ma questa era una condanna firmata. Aveva davanti agli occhi la metafora dell’Islam che si scontra con l’occidente. Avvertì una scossa ai nervi seguita da un tremore che fu evidente anche a Carla. D’istinto l’italiana le si piazzò davanti, come per proteggerla, e disse: «Io sto alla larga da quegli invasati. Se vuoi, segui me». Carla aveva bicipiti rassicuranti, certo non se li era gonfiati cucinando. Le aveva raccontato di essere una contractor alle dipendenze di un diplomatico russo. Ma il suo era un atteggiamento poco collaborativo. Rania sapeva leggere un’espressione, la catturava anche senza la sua telecamera digitale. Carla in fondo provava la sua stessa paura. Furono travolte dalla tempesta, dall’eco degli spari che precipitavano dal cielo plumbeo, dal caos. Le raffiche di mitra li sfioravano ma non li colpivano. Decine, i proiettili inghiottiti dalla sabbia. Urla strazianti: detenuti che cadevano uno dopo l’altro, oppure il fischio mistificatore di quel vento maledetto? Con la visibilità ridotta quasi a zero, il rischio di essere ammazzati era più concreto. Rania vide Carla arrendersi, aprire le braccia e chiudere gli occhi. Non avrebbe mai dimenticato quella scena: uomini risucchiati dal vortice di sabbia, fiotti di sangue che imbrattano le mura di cinta, l’eco sordo dei proiettili. Tutt’intorno: crocifissi umani, appena visibili, dritti e fieri come gladiatori. La morte, si disse, ci sta già seppellendo senza pala, tirandoci in faccia la sua terra. Si fermò e anche lei aprì le braccia. Poi, il buio e sala interrogatorio. Dall’oscurità di quella sala angusta, si fece avanti un uomo avvolto in un thawb bianco, intessuto di fibre di cotone, largo e ondeggiante. Sul capo portava una ghutra legata da una corda. «Il mio nome è Amed al Jaqim e sono al servizio del Re Fahd» proseguì, «Le carceri Brimain sono state costruite su imitazione della sacra Ka’ba che alla Mecca è il tempio che venne distrutto dal diluvio universale e in seguito riedificato da Abramo. Qui, si espia la propria colpa e si viene purificati con la morte». Ammassati in quel sotterraneo erano rimasti in pochi, una dozzina. Alcuni agonizzanti, circondati dal proprio sangue; illuminati quanto basta per contare i morti. Rania era accasciata in un angolo, il volto rigato da lacrime di terra. Accanto a lei c’era Carla, più arrabbiata. Nel regno saudita è in vigore la pena capitale e i boia vengono assunti al minimo salariale, questo Rania lo aveva appreso da un professore, un ometto egiziano di grande carisma e non la stupiva che Qasim fosse un assassino, ma che fosse tra loro. «Perciò moriremo tutti?» urlò Quasim. «Non tutti» si udì. Era una voce familiare, arrivava dall’uomo infagottato in una coperta di lana in fondo alla sala. «Loro hanno una lista» aggiunse. «Una lista di cosa? Chi sei?» domandò Carla. L’uomo emerse dalla sua coperta e il cuore di Rania sussultò: il professor Edison Mallik era lì. Rania si mise in piedi, vinta dallo sgomento, ma l’apertura della porta bloccò i suoi passi. Mallik sorrise: «Ti hanno monitorata, in quanto giornalista e unica sopravvissuta ai test. Sapere fin dove saresti arrivata con le tue capacità e con la tua motivazione, ha permesso di scoprire punti deboli della loro strategia di copertura, suggerendo quali tracce cancellare. Nessuno dovrà sospettare, una volta che il grande evento si sarà verificato». Rania si avvicinò al professore: «Dunque un attentato terroristico ci sarà a breve»? La giordana incatenò la rabbia che le ruggiva dentro. «Di sicuro sai che dispongono di molteplici fortezze», aggiunse il professore. «Nove, per l’esattezza. Dislocate nel deserto» disse Rania. «Le usano per eseguire test sulla risposta cognitiva». Il professore annuì. «Compilano delle liste con i nomi dei soggetti sperimentali da prelevare». «Diversi per cultura, età, professione» continuò Rania. «Scelgono cavie campione, elementi che siano rappresentativi di un particolare segmento sociale, per la manipolazione visiva e uditiva e stabilire fino a che punto si possa ingannare la mente umana», concluse. Rania riprese: «Agiranno contro loro stessi, e il mondo intero non vedrà il trucco. Presero Rania , Carla, il professore e altre 10 persone, le bendarono e le trasportarono alla capitale; da lì, misero i sequestrati sull’aereo per Manhattan. Rania trasalì, la vista di Manhattan le tolse il respiro per qualche secondo. Il cielo di Settembre era limpido. Una giornata in cui vivere. Sono nella Torre Sud. Rania inquadrò rapida la successione di vetri nell’edificio gemello. Dio sa se lo cercava. Scegline una, giordana. «Una ?» Una finestra. E decidi quale. Perché morirai oggi. Un suono roboante giunse dall’esterno. Un’ombra scura cresceva sulla facciata dell’edificio. Verità? O Invenzione di Mallik? Ormai non aveva importanza. Torre sud, penultima finestra a sinistra. Si convinse di vedere Carla e gli altri 10 sequestrati. Poi lo schianto e urla di terrore!



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Racconto scritto il 27/08/2016 - 01:37
Da Savino Spina
Letta n.1612 volte.
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Commenti


Nel tuo ultimo aforisma avevi messo le virgolette nel titolo ed il sistema, quando ciò accade, rende invisibile il testo. Ti abbiamo spedito alcune mail.
Buona giornata

Adriano Martini 29/08/2016 - 08:34

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C'è chi crede ciecamente in azioni complottistiche per ogni evento catastrofico.In TV qualcuno ha detto addirittura che il recente terremoto nel Lazio è stato provocato artificialmente.Io sto nel mezzo

Mirko Faes 27/08/2016 - 13:10

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a volte è meglio tenerle per se certe cose altrimenti uscirebbe fuori molte altre cose gravi quanto quella dell'undici settembre 5*

POETA DELL'AMORE LUPO DELL'AMI 27/08/2016 - 11:53

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11 settembre non è stato, come ci hanno voluto far credere, l'attacco terroristico più grave della storia dell'umanità, perchè è stato causato dagli stessi governi, che ci dovrebbero proteggerci. Questo significa che siamo governati da pazzi assassini, criminali squilibrati.

Savino Spina 27/08/2016 - 11:45

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