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Lamentazione d' Orfeo (III)

Maledir me maledicente l’olimpo
rapace di gioia altrui;
secondo voi con futili motivi
degrado il rifugio
dei maestri di carità e virtù
ai qual il capo mostrar si deve chino.
Infelice speranza,
tratta dal mondo l’ amata,
non lieto un giorno,
e svanisce l’ impronta divina
tra la compassione avvilente
delle mortali rivalse contro la grazia.
Il disprezzo degli dei mi accompagna,
per colui che restrinse nel tartaro sua pietà,
e tra ciò che annunzia
e che per i mortali farà,
c’è sempre di mezzo l’ abisso.
Così che i maligni d’olimpo il capo
solo vedono emerso tra le acque,
della spoglia vita e quale
sia il dimenar faticoso non affiora.
Convivere con la strazio adesso,
nemico di uomini e dei ...
... non è esistenza grata
l’ebbrezza d’ amor semplice...
se vuoi il tuo posto grida con Dioniso
gli sghignazzi della voluttà
che d’ allocco è differire il premio.
Pietà, o celesti, esclusa è dai ricordi?
sono ormai mantice pien di zolfo,
volto a soffiare sul vostro dileggio,
vestiti come sommi personaggi
più divini non vi distinguo,
vi trovo volti volgari, nel buio
delle vostre maschere imbiancate.
E rissose si susseguono
le fragili ali delle parole promesse,
catturano quello che appare mortale,
prima d’aprir bocca sapeste
come raggirare,
ancora l’ insegnate,
la via che al vero conduce.
Quali sono le vostre promesse,
ci additate le virtù non vostre,
dove porterà la vostra guida,
olimpia stirpe, se disconoscete
quelle stesse ai mortali concesse
e sono capienti ceste
di paglie e ortiche?
fine



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Opera scritta il 17/10/2016 - 19:24
Da Franco Tommaso
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