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Ulisse riflette

Ulisse riflette


S’accende della luce rossastra del tramonto, l’ocra delle mura che dieci anni di guerra non hanno scalfito.
Immobile nella piana, Ulisse le osserva… e riflette.


Dieci anni guerra e di morti sacrificati agli Dei dell’Olimpo, non sono bastati a Menelao per conquistare ‘sta Troia (Ulisse si riferiva alla città che si ergeva davanti al suo sguardo, non alla moglie di Menelao, l’errata interpretazione nei secoli a venire generò il neologismo: troia, usato per apostrofare una donna incline al tradimento).
Mi chiedo se gli Dei saranno ancora seduti nell’Olimpo a seguir le nostre inutili gesta, oppure stanchi di questo tiramolla, avranno alzato le divine tondeggianti chiappe, ormai fattesi quadre, e virato i lussuriosi sguardi su qualche alcova dove si combatte un ben più pregnante cimento.
Il dubbio m’assale, e si fa quasi certezza se volgendo lo sguardo, vedo arder la pira dell’eroe immortale.
Solo ieri brandiva il luccicante armamento dal suo immortale piedistallo, e stamane l’ho visto cadere con fragore di tuono e andar in mille pezzi come un colosso d’argilla, l’invulnerabile Achille.
Appellandosi alla sua presunta invulnerabilità faceva lo sborone il pelide. «Toccami qua, colpiscimi là, le tue armi spuntate non mi fanno nemmeno il solletico…» e via discorrendo.
E quel boccalone di Ettore, per non mostrarsi pavido davanti alla sua curva appostata sugli spalti di Troia, accettò la sfida pur conscio, non dico di poter vincere, ma nemmeno di pareggiare; e così in quattro e quattr’otto si è fatto infilzare come un tordo.
Mi vien da sganasciarmi dalle risa se penso alla tragicomica fine dello scultoreo semidio, infilzato dal dardo scagliato da quel mezza sega di Paride, buono solo a coprire pecore e donne d’altri già ben rodate, per l’acclarata impotenza nell’arte del deflorare.
E non son certo credibili, anzi son proprio patetici i camerati dell’eroe, quando, per giustificare l’inopinata disfatta, cercano di attribuire l’infausto evento all’intervento fuori campo del dio Apollo; la verità è una, e una soltanto, il pelide passò troppo tempo a gonfiare i muscoli, dimenticando d’alimentar l’intelletto.
Soltanto un demente, pur consapevole d’aver nel tallone il proprio punto debole, se ne va a spasso in mezzo alla pugna con sandali aperti senza metter una robusta placca di bronzo a protezione del topico punto.
E poi che dire dei due coglioni che si credono condottieri, solo perché ci hanno condotto fin quaggiù a farci massacrare.
Chiusi nella loro tenda stanno ancora dibattendo se tentare un altro assalto, oppure ritirarsi con le pive nel sacco.
Senti Agamennone come sbraita; fosse per lui avrebbe già fatto i bagagli e salpato le ancore; ma suo fratello non ne vuole sapere di tornarsene a casa cornuto e mazziato.
Se vuole riacquistare un po’ di considerazione presso i suoi sudditi, deve tornare con Elena… e lo scalpo di Paride appeso alla cintola.
Prima che quei due si mettano d’accordo su cosa sia meglio fare, mi sa che passeremo altri dieci anni accampati qua fuori, a guardar i troiani farsi beffe di noi dalle invincibili mura.
Qui ci vuole un’idea… ma che sia proprio tosta, oserei dire una gran genialata… un’astuzia ‘sì grande da trovar posto nei libri di storia nei millenni a venire.
Or dunque! Vediamo cosa mi posso inventare per aiutare ‘sti quattro straccioni che si atteggiano a guerrieri, perché tornino a copulare nelle alcove tenute ben calde da mogli riscaldate da amanti.
Se vuoi penetrare una donna, non lo puoi fare sfondandole un fianco, devi prima traguardare il pertugio adatto all’urgente bisogna; subito dopo, affinché lei possa aprire le cosce senza colpo ferire, ti devi spogliare della pesante armatura e ignudo far precedere il tuo sguardo dal turgido dardo, foriero di piacere, puntato sul vermiglio fiore; solo allora ti sarà concesso di cavalcar le invitanti forme in sfrenato galoppo.
Se cavalcare una piccola donna, sia essa la più bella, ha prodotto dieci anni di lutti e di guerra, sarà un gran cavallo di massiccio legname a penetrar quella porta e a farla cessare.
Saranno i troiani ingolositi dall’imponente dono ad aprire i tenaci battenti, come fossero morbide cosce, e a far penetrare il dardo mortale nel sesso pulsante dell’ancor vergine Troia.


Convinto d’aver trovato la quadratura del cerchio, Ulisse corse da Menelao e Agamennone, descrisse il suo piano e, ottenuta l’approvazione dei due capintesta, si diede da fare per porre fine al lungo assedio.
Non sapeva il poveretto, che il ramingo suo andare, per altri dieci lunghi e perigliosi anni l’avrebbe accompagnato… ma questa è un’altra storia… chissà, magari la narrerò… quest’altra volta.


FINE?




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Opera scritta il 05/01/2018 - 16:34
Da vecchio scarpone
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