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Natale volgarità vere o presunte e altre amenità

Natale: volgarità vere o presunte e altre amenità.


Il giorno di Natale, per scansar parenti e scordar rimpianti, decisi di passarlo lontano dai ricordi.
Quattro passi in galleria con la mia signora e un buon pranzo in un ristorante stellato, in mezzo a volti anonimi, mi parve il modo giusto per festeggiare il nulla.
Un ottimo servizio e un cibo niente male, invero un po’ salato al mio palato, ma che mi lasciò di stucco, fu il conto assai pepato.
Declamai, con tono molto grave, le voci della fattura: «Due calici di vino, una bottiglia d’acqua, un antipasto di salmone, un altro di bresaola, un risotto alla milanese, un altro con i funghi, un’insalata mista, un tonno scottato, un caffè macchiato, un bicchierino di grappa, pane e coperto; per un totale di: duecentotrenta euro! Ma è una volgarità!»
Pagammo e ce ne andammo, tronfi e appesantiti, con il portafoglio alleggerito.
Per aiutare la digestione decidemmo di fare quattro passi in galleria e, di seguito, sotto i portici che corrono paralleli al Duomo.
Camminando sottobraccio alla mia signora, con sguardo ben teso in avanti, cercavo di evitare la vista di quello che mi sfilava accanto. Senza peraltro riuscirci, perché la coda dell’occhio cadeva immancabilmente là, a guardare ciò che desideravo esorcizzare; immigrati che, stendendo teli sul selciato, esponevano la loro povera mercanzia, pronti a raccoglier tutto e scappar via, alle prime avvisaglie degli agenti di polizia.
E poi ancora; persone avvolte nelle coperte o nei cartoni, sdraiati accanto alle vetrine e ai bandoni della ricca Milano; gente che aveva perso tutto, anche la dignità di esser chiamati uomini, e con disprezzo erano aditati con l’appellativo di: «Barboni!»
Fingendo di non vederli, continuai a camminare, ripensando a chi aveva osato stilare sopra la fattura del ristorante, una cifra tanto esorbitante che, ai miei occhi, se non proprio una rapina, parve una
vera volgarità.
Giacché si entrava gratis, e avendo oramai superato abbondantemente il nostro limite di spesa, decidemmo di visitare il “museo del novecento”. E qui devo aprire una parentesi: dell’arte non ci capisco una beneamata mazza, perciò v’invito a non tener conto dei giudizi, sulle opere e gli artisti, di un emerito incompetente. Chiusa la parentesi!
La prima opera; “il quarto stato”, del Pelizza Da Volpedo, mi riportò alla mente i valori universali del socialismo, da molti conclamati e fatti loro, ma nella realtà, da tutti ignorati.
Una scultura, mi pare in bronzo, colpì la mia fantasia, l’autore più non lo rammento, mi sembra fosse il Balla… Ah! No, era il Boccioni!
Io vi vidi un uomo in veloce movimento, e mi sembrò d’udire anche l’eco della sua voce: «Scappiamo via da qui! Son tutti pazzi! Valutano milioni due scarabocchi e quattro stracci! E’ una volgarità assoluta!»
“Sarà colpa del calice di vino, o del grappino a cui non sono d’uso”, pensai un po’ preoccupato.
«La primavera prossima c’è da ritinteggiar la stanza. Mi piace il soffitto, lo riprendo con il videofonino e lo mostro all’imbianchino», annunciò felice la mia signora, quando fummo giunti all’ultimo piano.
«Cerca d’andarci piano, ci ha il copyright, l’è un’opera del Fontana, la costa una fortuna», la informai in tono sommesso.
«Allora che se la tenga!» sbottò stizzita, riponendo la magica scatoletta dentro la borsetta.
Poi arrestò lo sguardo su tre lastre di rame sbrecciate.
«Cos’è che ti ha tanto colpito di codesta opera?» le chiesi, atteggiandomi ad esperto.
«Il colore del rame!» fu la risposta lapidaria, che mi calò la palpebra e pure la mascella.
“Ma ‘sto Fontana, l’è proprio un vero artista (di cosa sorvoliamo) se riesce a far milioni bucando quattro tele e tagliandone altre quattro”, riflettei, corrugando la fronte come un fine pensatore, cercando di penetrare l’anima delle opere.
Guardando la piazza dall’immenso finestrone, spalancai gli occhi e aprii il pensiero: “Eccola lì l’opera d’arte da studiare, si potrebbe titolare: città opulenta o città volgare?”
Stridente era il contrasto, fra i reietti accampati al limitare del sagrato e il gigantesco albero, con gioielleria incorporata.
E quella cattedrale, ricca di guglie e statue, bella da vedere, ma troppo ridondante, poteva apparir volgare di fronte a tanta miseria, se quel grand’uomo del Tettamanzi non l’avesse frequentata.
Tornando verso casa, ripassando la giornata, riflettevo su cosa fu volgare e cosa invece no.
Rammentandomi del museo, e di un’opera del Manzoni, ebbi un’illuminazione.
Era un piccolo barattolo con una scritta particolare sull’etichetta: “merda d’artista”. Seguiva la data dell’evacuazione e il peso espresso in grammi.
“Ma il Manzoni, mangiava solo perle e buttava a mare la carne delle ostriche? Se così fosse, chissà che sforzo avrà dovuto sostenere, per creare codesto capolavoro”, pensai di primo acchito, ragionando sul valor venale.
Di seguito approfondii il concetto: “Volgare è il contenuto, la scritta, o il valore pecuniario? Essendo azioni consequenziali, potrebbero esserlo tutte quante. O solo il primo atto si può definire volgare, perché tracciò la strada, mentre il secondo venne di conseguenza ad indicar la via e il terzo li seguì come un somaro?”
Optai per la seconda ipotesi, e rimisi assieme il puzzle.
Non fu volgare chi redasse il conto del ristorante. Fui volgare io che ben conoscevo i prezzi; e che usando testa e cuore, invece d’ingozzarmi, con tutto quel denaro avrei fatto felici, almeno per un giorno, quei poveri reietti che bivaccavano tristi e infreddoliti, sotto gli sguardi indifferenti di gente troppo avvezza a pensar solo a sé stessa.
Fu volgare l’artista che dipinse il quadro? Penso di no. Al massimo fu solo furbo, se riuscì a scucire un bel po’ di quattrini all’ignoto benefattore, o grullo che dir si voglia, che lesse il prezzo sotto esposto.
Volgare fu l’arricchito che per mostrare al bel mondo il suo potere, si riempì la casa di opere più o meno vere, passando pur per grullo agli occhi del sapere. Se avesse usato quei soldi per far del bene, avrebbe avuto il plauso di molta brava gente.
La conclusione di questo mio elucubrare, è una sola: la volgarità, mica si scrive… si fa!




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Opera scritta il 20/12/2018 - 17:02
Da vecchio scarpone
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