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Vuoto (parte seconda)

Un bel locale e una band che suonava: questi erano stati gli ingredienti del caso. Fu il caso che mi fece sedere davanti al bancone delle birre. Ero uscito con degli amici a bere e ad ascoltare una brava cover band di cui non ricordo il nome. Forse fu proprio il caso a farmi sedere lì. E caso volle che due amiche, tu e non ricordo l’altra, vi sedeste proprio accanto. Tu ti sedesti al mio fianco. Avevo già bevuto due birre. Forse più. E la lingua era più sciolta, la timidezza scomparsa e una strana sensazione mi diceva che ci sarei riuscito.
Mi girai e ti vidi: stavi bevendo una birra e ti godevi lo musica insieme alla tua amica. Ti sottraevi al mio sguardo, tranne se colta di sorpresa. La sorpresa! Che magnifico espediente. Non potevo guardarti e sperare che anche tu iniziassi a guardarmi così, senza motivo. Dovevo scovare un espediente e quello fu il caso. Il caso volle che, nello stesso momento in cui ti girasti verso di me, io mi girai verso di te. E lì non potevi fare altro che sorridermi. Un sorriso innocuo, innocente. Ma mi sorridesti. E capii subito che avevo una chance di non tornarmene a casa con un due di picche dentro le tasche.
La sorpresa. Forse ti sorpresi pure che cercai di principiare una conversazione? Non credo. Chissà quanti mascalzoni avranno provato ad attaccarti bottone per poi finire respinti. Ma non fu il mio caso. Iniziammo a parlare. Di cosa? E chi se lo ricorda più. Tu facevi il penultimo anno delle superiori ed io il primo d’università. Immagino parlammo dei soliti argomenti banali che tutti i ragazzi trovano interessanti: esami, verifiche, film, musica, sogni e speranze.
Avevo già capito di aver fatto centro. Di essermi ritrovato, putacaso, seduto vicino ad una ragazza che sembrava avere la mia stessa lunghezza d’onda. Eravamo compatibili e capivamo di esserlo. Poi successe.
Il barista: quello che spinava le birre dietro il bancone del bar. Quello che era indaffaratissimo di lavoro. Che imprecava se finiva un fusto. Che avrebbe voluto starsene lui dalla parte giusta del bancone. Che doveva essere uno studente che il mattino dopo si sarebbe dovuto alzare presto. Tutt’un tratto ci fa: quand’è che vi baciate?
Ce lo disse realmente! Non è fantasia. Lo guardammo inizialmente un po’ sconvolti: occhi sbarrati, bocca aperta. Poi, con un sorriso, mi decisi a darti quel primo bacio. Un bacio a stampo. Tu rimanesti ferma, immobile. Io invece mi gettai sulle tue labbra: rosse e carnose. Scherzai col fuoco? Lo ammetto! Poteva esserci il rischio di scottasi? Presumo! Infin dei conti il fuoco è fuoco e brucia. Se non fosse così l’avremo chiamato rossetto. Ed infatti era rossetto quello che mi lasciasti. Non mi bruciai, non mi scottai, era stato puro istinto e… l’avevo scampata.
Dopo la sorpresa iniziale sorridesti. E quel sorriso ce l’ho ancora stampato nella memoria. Il più bello della mia vita. Il più significativo. Chissà se quel barista non avrebbe fatto quella domanda come sarebbero andate le cose? Forse ci saremmo messi insieme lo stesso. Forse no. Ma non passa giorno che non ripenso a quel primo bacio, del tutto casuale.
Il caso. Merito del caso? Sì, è proprio così.


«Se non c’avesse posto quella domanda?».
«Sarebbe capitato in altro modo. Ma così è stato tutto molto più bello» e mi sorride.
Quel sorriso sempre quel sorriso. Non avrei voluto mai stargli distante. Ma la vita non va mai come vorresti. Chi vuol fare quello e chi vuol fare l’altro. Chi vuol farlo là e chi lì. E ti ritrovi a dover dividere la strada.
«Quanto sarà passato?».
«Più di vent’anni mio caro».
«Dici?».
«Eh, sì! Avevo quasi diciassette anni quindi… sì, più di vent’anni!».
«Non riesci a dire la tua età? Guarda che so l’anno in cui sei nata».
«Non me lo ricordare».
«Tutte uguali voi donne vicino agli anta» e gli sorrido.
«…».
«Lo so che gli hai raggiunti da poco».
«Uffa! Perché il tempo passa così in fretta».
«Per me non è così».
«Tu ti sei fatto una famiglia, dei figli, e… io…».
«Tu cosa?».
«Io niente…».
«Cosa vorresti dire? Vorresti darmi la colpa di essermi rifatto una vita? Suvvia, Eli! Siamo stati insieme quattro fottuti anni e dopo vent’anni vieni a dirmi…».
«Non volevo dirti questo!».
«Sai che io volevo restare con te? Nel bene e nel male? Perché…».
«Non lo dire, ti prego! Lo so. Forse non sarebbe dovuta finire. Forse…».
«E lo dici adesso?».
«Ti ricordi cosa mi dicesti quel giorno?»
Quel maledetto giorno…


Per tutta la vita? Distanti per tutta la vita? Quanto dura una vita media? Ottant’anni? Novant’anni? Più di cinquant’anni separati? È troppo tempo. Troppo indefinito. Non potresti essere più precisa?
No, non potevi esserlo. Ero io che non accettavo come andavano le cose. Tu che ti stavi facendo una vita distante, fuori di casa. Io che mi stavo facendo una vita vicino, sotto casa.
Piangevi ed eri ancora più bella. Io no. Non potevo mettermi a frignare come uno scolaretto. Avevo il mio orgoglio! Fottuto orgoglio che non sei altro. Avrei voluto piangere, lacrime vere, lacrime amare. Perché il problema non era il nostro, era del mondo, della società. Quella vita frenetica stava dividendoci e io non riuscivo ad accettarlo. Tu sì. O forse non lo accettasti ma decidesti che sarebbe dovuto andare così.
Che palle! Se ci ripenso ancora a tutto l’orgoglio che mi impedì di piangere come una fontana, non riesco a capacitarmi. Tu con le tue lacrime che io definii di coccodrillo. Bugiardo! Sono un bugiardo. Sapevo già allora di mentire. Sapevo di farti male. Di farci del male. Ma non mi riuscì di fermarmi. Volevo anch’io piangere. Versare così tante lacrime da poterci navigare. Da non essere più in grado di cavarne una per tutte quelle già versate. E invece… niente! Nada. Un nonnulla.
Per tutta la vita? Mi ripetevo. Per tutta la vita? Non lo so, mi rispondevi. Come non lo sai? E poi ti decidesti: sì, per tutta la vita. Era quella la mia paura più grossa, un tempo indefinito: non due giorni, non due mesi, non due anni, non due decenni ma… tutta la vita! Non è un numero. Un numero razionale, intendo. Certamente sarebbe stato più di conforto. Perché? Perché non puoi sommare gli anni passati con tutta la vita. È un’operazione impossibile o almeno improbabile. Non si può sapere gli anni che ci restano da vivere. Quando gli scopri è sempre troppo tardi. Ed è il medico legale a tirare le somme: cartellino all’alluce e via… spariti. Nel nulla. Rimane solo un nome con due date. Una la conosco e l’altra? Solo gli altri la conosceranno.
Questo mi spaventava. E mi spaventa ancora. Il non sapere. Non avere quella certezza razionale che ci rende uomini. Perdersi nell’indeterminatezza, nel fato, nel destino, nel caso. Il caso. È stato il caso a farci incontrare e forse è stato lui a dividerci. Il caso. Maledetto caso che ha voluto dividerci le strade. Maledetto caso che ci ha portato distanti. Maledetto caso che ci ha portato a dover continuare ognuno per sé. Come due sconosciuti. Come due estranei. E forse è tutta colpa nostra che non siamo riusciti ad evitarlo. O al limite ad impedirlo.


«Tutta la vita…».
«Eh sì! Tutta la vita…».
«Mi odi ancora?».
«Ma no! È passato troppo tempo…».
«Allora cambio domanda: mi ami ancora?».
«…».
Perché rimango senza parole? Perché in questi difficili momenti non riesco mai a parlare? Perché se poi qualcosa esce non è mai quella che vorrei? Perché sbagliare? Perché non essere nel giusto? Non trovare le giuste frasi, le giuste parole nella giusta situazione?
«Allora?» e gli luccicano gli occhi.
«…».
Qual è la cellula che dovrebbe fornirmi la frase giusta? Perché le mie sinapsi mi abbandonano nel momento del bisogno? Perché non trasmettono alle cellule del mio cervello la giusta reazione emotiva? Non riesco a ragionare, non riesco a decidermi. Parole maledette! Non volete uscire e, se uscite, uscite malamente.
«Perché mi chiedi questo?» e forse anche a me, ora, mi luccicano gli occhi.
«Non lo so. Forse perché vorrei sentirtelo dire…».
«Cosa?».
«Non lo so. Quello che vorresti dire!» e si mette a piangere.
«Cosa vorresti sentirmi dire? Che sì, ti amo ancora? Eh? Questo vorresti sentirti dire?» e mi bacia.
Non riesco a muovermi. Pietrificato. Chiudo un secondo gli occhi, giusto un battito di palpebre. Ma ora che le ho riaperte, la vedo: lei. Lei giovane. I segni del tempo se ne sono andati. È tornata la mia giovane ragazza di un tempo. Bella, bellissima. Un salto nel tempo fino a ritornare a vent’anni prima. I capelli riprendono quello scuro colore di un tempo. Le guance tornano morbide e prive di rughe. Le labbra rosse incandescenti che rischiano di bruciarmi. Ribatto le palpebre e torna ad essere la ragazza di ora. Sempre bella, bellissima. Quelle rughe che tanto fan male alle donne gli donano che è un meraviglia. Torna quell’inizio di spolverata invernale tra i capelli.
Si stacca: le lacrime solcano quel viso roseo, appena spruzzato di un piccolo rossore. È durato un attimo? Un secondo? E perché penso sia passata un’eternità?
«Scusami…» e continua a piangere.
«Dai, non è… non è niente», è una bugia.
«Come… come si chiamano i tuoi figli?».
«I… i miei figli?».
«Sì» e smette di piangere.
«Francesco quello più grande e…» mi blocco.
«E?».
«E… Azzurra, la mia piccolina…» l’ho detto.
«Azzurra?».
«Sì».
«Il nostro nome? Quello che…» e altre lacrime principiano a scendergli piano dagli occhi. «Quello che…» e non riesce a finire la frase.
Proprio quello…


Non volevamo un figlio, proprio no. Eravamo troppo giovani e pieni di sogni per metterci a fare un piccolo bebè. Ma come tutti sceglievamo dei possibili nomi per la futura prole. Per quel bambino che avremmo desiderato un giorno. Un giorno che forse già sapevamo non sarebbe mai arrivato. Ed erano solo nomi femminili. Il perché?
Quelli maschili non suonano così bene. Anche il tuo Matteo, mi dissi. Anche quello. E quindi non lo sceglieresti. No, preferisco condividere la scelta per quello di una piccola femminuccia. Che stupido. Non credo sia stupidità. E allora cos’è? È la bellezza di un nome, quello da maschio non mi tira molto. Il mio, Elisa? Sì, il tuo mi piace.
E continuammo forse per tutta la notte. A scegliere e scartare. Scovando, rintracciando, immaginando, se non proprio inventando, nomi per una piccola signorina. C’erano quelli tratti dalle canzoni: Sally, Maybellene, Jacqueline, Roxanne. Quelli delle attrici famose: Sophia, Marilyn, Julia, Nicole. E quelli che più ci piacevano tratti dall’infinito.
Eravamo stesi sopra di una coperta. Volti a guardare le stelle che sembravano rincorrersi. Parevano chiamarsi. Noi le cacciavamo con gli occhi, come veri cacciatori cercavamo le stelle e le fissavamo, le studiavamo. Dei piccoli astronomi. Studiosi e cercatori di queste piccole meraviglie. Solo perché distanti anni luce. Inarrivabili. Ci saltavamo sopra e iniziavamo quel viaggio. Distratto e incerto. Come chi da poco ha imparato a farlo.
Stella? Ma dai, sembra il nome di un cane! Allora Sole? Tirami fuori anche Mariasole! Serena, dai Serena è bello. Umm, non so. Sei molto complicata. Ah io? Sì tu. Tu che dici di non voler scegliere un nome per un maschietto? Va be’, che c’entra? C’entra caro mio. Allora Aria? Sì, Aria Condizionata ma dai! Luna? Troppo corto. Due sillabe non bastano? Ne vorrei qualcuna in più. Astra? Ti ho detto che due sillabe son poche! Azzurra? Azzurra…
Azzurra. Perché proprio quel nome? Non saprei dirvelo. Non sappiamo dirvelo. Ci piacque. Dal momento che uscì ci prese. In fin dei conti era un nome semplice, perfino banale. Ma era il nostro nome. Condiviso. Un colore. Il colore del cielo sereno. Sprovvisto di nuvole e limpido. Amante dell’aria aperta, ma dalla spiccata voglia di solitudine. Magari di quella solitudine condivisibile solo con un ristretto numero di persone. Probabilmente una. Un puro diamante che avrebbe dovuto combattere per cercare quel suo partner ideale. Quell’amore frutto di una partenza, di un principio. Solo l’inizio e poi si va. Senza una meta, senza un lasciarsi e senza un ritorno…


«Lo hai scelto tu?».
«E chi se no?».
«Tua moglie sa il perché?».
«Sa solo che come nome mi piace e che avrei tanto…».
«Ma lo sapevo prima io».
«Sì, ma tu non ci sei stata e lei sì».
«Com’è?».
«Perché mi chiedi questo?».
«Voglio solo vedere la bambina che ha preso il nostro nome. Quello che io e te avevamo scelto…».
«Quello che io ho deciso di dargli! Ripeto: tu mi hai lasciato. Avevi buone ragioni per farlo ma la mia…».
«Ma l’hai fatta diventare nostra!».
«Per un nome? Uno stupido nome? Potevo chiamarla Camilla, Chiara, Alessia o… sì, Elisa».
«Posso vedere la sua foto» e gli mostro la foto.
La mia bambina. La mia piccolina. Il caso ha voluto donarle due occhioni da cerbiatta azzurri. Come il suo nome.
«Che occhi belli…».
«Lo so».
«Le vuoi tanto bene?».
«È mia figlia, certo».
«La nostra come sarebbe stata?».
«Dipende da chi avrebbe preso».
«Se da te?».
«Eh, non un granché» e ride.
«Se da me?».
«Bellissima» e un’altra lacrima le scende sulla guancia.
Cosa dovevo dire? Una bugia? Un’altra? Forse è l’unica cosa giusta che gli ho detto in tutta la serata. Nostra figlia sarebbe stata la bambina più bella. Il cielo sereno più bello di sempre. E sarebbe stato tutto merito della madre. Che l’avrebbe accolta nel suo grembo materno. Glielo avrebbe affittato per nove mesi. Senza spese, senza canoni, senza affitto, senza bollette. Tutto gratis. E sarebbe stata la mia invidia. Una bella vacanza di nove mesi nel grembo della mia Elisa. Ed io ad aspettare fuori, nel burrascoso mondo. L’avrei invidiata per il resto della vita. L’avrei poi cresciuta, l’avrei accudita, l’avrei rialzata. Avrei cercato di spiegarle il mistero della vita e non ci sarei riuscito. Gli avrei cercato di spiegare i segreti dell’amore ma mi sarei sbagliato. Avrei cercato di fare tutto quello che avrei potuto. Ma, alla fine, non sono riuscito neanche a concepirla.
«La nostra Azzurra…».
«Ti prego, non piangere» e scende.
Non ricordo da quanto non piangevo. Forse mi era uscita una lacrimuccia il giorno della nascita dei miei figli. Quando mio padre se n’era andato. Ma questa… questa lacrima è qualcosa di diverso. È la disperazione. Di una vita che poteva essere e che invece non fu. Di una vita che avrei tanto voluto e che invece ormai non avrò più. Il caso che ci ha uniti e poi ci ha fatto dividere. Il caso. Maledetto caso. Che mi ha fatto nascere una bellissima bambina ma con la donna sbagliata. Una bambina che amo e sempre amerò. Ma che non mi merita. Che un giorno probabilmente mi dirà: babbo!, sei un uomo solo a metà. E io non potrò altro che chiederle perdono. Perdonami bimba, per quello che non sono. Perdonami piccola, per quello che sarò. Per quello che farò e per quanto male ti farà. Perdonami. Perdonami di tutto.
«Si è fatto tardi» e mi asciugo le lacrime.
«Sì. Scusami ancora» e asciugo le sue.
«Non devi scusarti».
«Ci rivedremo?».
«Chissà, forse».
«Okay, stammi bene» e mi abbraccia.
«Anche tu» e la stringo.
Stringimi, sgonfiami, non lasciarmi andare, ti prego. Non posso sopportare una seconda volta. L’orgoglio, la famiglia, il tempo. Non si cicatrizzano certe ferite. Non si rimarginano certe crepe. Qualcosa le ferma e le blocca. Uno sbocco di sangue continuo. Un fiume di sangue che ci avvolge per… per tutta la vita.
«Ciao Matti».
«Ciao Eli» e me ne vado.
Non voglio girarmi. Sarebbe troppo, penso. Inizio a piangere. Tanto ho deciso. Mi guarderà? Starà guardandomi mentre vado via? Non lo saprò mai. Accendo la macchina e parto. Se mi avesse guardato avrebbe capito che ho preso la strada opposta. Non sto tornando a casa. Non ho intenzione di tornarci. Mai più. Ormai ho deciso.
Tutta la vita. Un tempo troppo indefinito. Non lo posso più sopportare. Sarò io a renderlo definito. Sarò io a farlo diventare un numero razionale e sommabile al tempo passato. Non voglio più indeterminatezza. Non intendo più starmene a guardare. Voglio chiudere quello che ho iniziato e nessuno mi potrà fermare.
Squilla il telefono. Non lo tiro fuori. Se dovesse essere Elisa vuol dire che si è voltata e mi ha visto imboccare la strada sbagliata. Se è mia moglie vuol dire che è preoccupata che non mi sono fatto sentire. Non importa. Non mi importa più di nulla. Non voglio sapere chi mi sta chiamando. Voglio rimanere col dubbio. Quel dubbio che mi ha sempre accompagnato negli ultimi vent’anni e che… e che oggi ho deciso di abbandonare.
Mi fermo sopra il ponte. Che bella la notte. Che belle le stelle. È sereno. Il cielo è sereno. La luna è una piccola fettina. Intorno è tutto silenzio. Non c’è un rumore. Non un uccellino. Non una macchina. Nessuno. Sono solo. Finalmente. Una brezza mi accarezza sul viso. Circondato dal rumore della notte. Guardo in basso. Non ho le vertigini. Le ho sempre avute ma oggi no. Mi sento coraggioso. Mi sento così tanto coraggio addosso che mai avrei potuto credere di avere. Tiro un respiro profondo. Che buon odore ha questa notte. E mi getto nel vuoto…




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Opera scritta il 05/05/2020 - 10:06
Da Boris Gant
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