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il trionfo della coscienza cap. 1

Spero di non disgustarvi, Signori miei, con tutte queste storie; lo so, sono eventi crudeli; ma sono tutte vicenda da raccontare, ed è per questo che io peccando di perfida presunzione dico che non ho il diritto di tenerle a voi nascoste. Di sicuro però ho il dovere di farle pesare tutte sulla mia coscienza, che senza perdere occasioni turba instancabilmente, la mia oramai instabile quiete opprimendomi in tutti i modi, per far sì che la mia persona debba implorare il perdono a lei. Ebbene cari Signori miei, io non lo farò mai; io non provo rimorso, né compassione per quello che ho fatto. Nel nostro Mondo, un Cosmo fatto di cattivi consiglieri, io sono conosciuto come il Santo; ma il mio vero nome è Riccardo, ho quarantasei anni; che cosa ho concluso in tutto questo tempo? Ho seminato solo terrore, paura, angoscia; quante volte ho sentito il vuoto della solitudine attraversare la mia mente. Nello scorrere della mia tormentata vita ho catturato un’infinità di sguardi, che attoniti mi fissavano cupi, per estirpare un atto di clemenza al mio cuore avido di carità, e sterile di carezze. Vedete, illustri Signori della corte, nel mio mestiere non si vive molto, perciò queste virtù sono molto rare, non esistono nemmeno nei modi più lievi; e che dire di tutte quelle volte che ho percorso l'ignoto, l’infinito, il punto di non ritorno; ho varcato quasi sempre consapevole la linea di contatto che separa con fragilità il lecito dall’illecito. Ho procurato solo dolore, il dolore della cupa Signora. Il tutto cominciò in un mercoledì pomeriggio, un giorno come tanti, per tanti di voi, ma per me è stato l’inizio della mia ascesa, o l’inizio della mia rovina, chi lo sa. Una cosa è certa ne avrei fatto volentieri a meno di trascorrere quel pomeriggio maledetto. All’epoca dei fatti il mio candido paese vestiva a festa, nella piazza principale per il piacere dei paesani erano arrivati gli intrattenimenti; c’era l’autoscontro, il pugno di ferro, la giostra, (quest’ultima quale felicità dei bambini), mentre le strade limitrofe erano addobbate dalle mitiche bancarelle cariche di dolciumi. Il profumo del torrone appena fatto si propagava in tutte le direzioni in uguale densità.
Nella piazza principale, eretta a suo tempo dagli antichi Borboni, si esibivano incontrastati gli agguerriti delfini, che per armonia di forme, ingannando l’occhio all’infinito, creavano uno scenario di lodevole ammirazione. A lato un bellissimo palco addobbato con striscioni variopinti attendeva l’arrivo del primo cittadino, che avrebbe dato inizio (dopo il suo rituale discorso) ad esibizione di vario genere; quali canti, balli e suoni popolari; mentre in serata poi era previsto l’arrivo di personaggi illustri, nonché di cantanti di professione e comici di alto livello. In piazza inoltre erano stati addobbati dei tavoli preposti per il consumo dei pasti veloci. L’attrazione principale però, quella che destava più interesse era il tiro a segno (almeno per i signori uomini), dove io mi sono dilettato con successo, eh sì, perché su cento colpi, ne ho centrati cento, tutti piazzati al posto giusto: al centro del bersaglio. Data la mia giovane età, carico di profonda euforia per il brillante risultato ottenuto, ho provato un altro tipo di tiro, quello istintivo, ed anche in quel frangente ho trionfato. Intorno a me, nel frattempo, si erano esibiti nelle due discipline, chi con risultati mediocri, chi addirittura con scarsi risultati. La situazione aveva attirato un gruppo di gente estranea alla competizione che teneva i punti affinché si potesse redigere in tutta tranquillità una lista (sebbene quest’ultima non fosse una cosa ufficiale), dove figuravano i migliori; ebbene cari Signori sono risultato il miglior tiratore di tutto il paese. Tutti in quel momento smisero di colpo di interessarsi ad altro, la loro particolare attenzione era rivolta a me; in quel momento mi sentivo trafitto da un’infinità di sguardi, che a mo’ di frecce avvelenate mi trafiggevano coinvolgendomi in un silenzio tombale. Tutto questo mi pose in un’evidente situazione di imbarazzo assoluto. All’istante il mio corpo venne pervaso da un freddo brivido, ponendomi in uno stato evidente di pura suggestione. Mi resi subito conto che la mia abilità non passò inosservata, qualcuno molto in alto s'interessò fortemente alla mia bravura, qualcuno che dettava legge in paese. Terminata la festa tornò la normalità nel paese, data la mia giovane età (diciannove anni) vivevo spensierato. Quel giorno mi trovavo al bar, come tra l’altro era mia abitudine, perché era un locale tranquillo e pulito; non ricordo esattamente il nome, ma la cosa è irrilevante. Tuttavia, a grandi linee posso descrivere la disposizione interna. Nella composizione planimetrica si poteva notare un’ampia sala giochi, completa di biliardo e di calcio Balilla, con annessa una sala di media entità più appartata, dove regnavano indiscussi i mitici tavoli di panno verde. La sala principale, anch’essa bella e spaziosa, vantava un bellissimo banco per la distribuzione con un grande specchio, con delle mensole ben rifinite sui quali prendevano posto bottiglie aperte e chiuse, nonché uno congruo numero di bicchieri dalle svariate misure e colore. A lato sinistro, voltando le spalle alla porta si poteva intravvedere una piccola saletta con all’interno un telefono di manifattura artigianale molto bello, di colore avorio; che posto su un tavolo di forma circolare con annesso una poltrona in pelle, dava la possibilità alle persone di telefonare o ricevere telefonate in tutta tranquillità lontani da chiacchierii e rumori di fondo. Sulla porta, un cartello giallo ocra a forma ovale, recava la scritta: telefonate brevi. Il bar in questione aveva inoltre due grandi finestre adornate da bellissime tendine di colore rosa; mentre le pareti dalla tonalità del ghiaccio sporco, mostravano con profonda vanità i ricordi passati nella vetrina all’angolo. Nella sala vi erano otto tavoli per chi volesse usufruire del servizio non al banco; con rispettive sedie, (con l’esattezza quattro per ogni tavolo), molto comode. Vi erano inoltre due frigoriferi per i gelati, un jukebox e due grandi ventilatori attaccati al soffitto; tuttavia, nella sala si poteva avvertire un penetrante odore di fumo passivo; per fortuna l’odore del buon caffè copriva questa nota dolente inebriandoti con il suo marcato aroma arabico. Alzando lo sguardo si poteva notare un sontuoso lampadario, che per forma era in sintonia con il resto dell’arredamento. Il barista, si presentava agli occhi della clientela con un paio di baffi folti e neri, mentre i capelli spazzolati all’indietro intonandosi con un viso allungato e leggermente smagrito viaggiavano di pari passo ad un timbro di voce marcato carico di autorevolezza; vestiva sempre elegante, con l’abito scuro, completo di tutto, tranne la giacca e la cravatta, perché sopra alla camicia era solito indossare un grembiule di colore blu. Lo vedevi andare su e giù per la sala con passo morbido e continuativo, fluido, dava l’impressione che tra il pavimento e le suole delle sue scarpe ci fossero dei leggeri cuscinetti d’aria atti a tenerlo sospeso quel tanto che bastava per farlo scivolare a zig-zag tra le persone silenziosamente, in compagnia del suo grande vassoio portavivande eternamente pieno. Mentre io assorto, fantasticavo nei miei pensieri, lui, il barista, attirò la mia attenzione, e con un semplice gesto mi passò vicino, e in un attimo con la mano libera, fece assumere al pollice e al mignolo della sua mano la classica forma della cornetta telefonica, come per dire ti cercano al telefono. Io prontamente capii, difatti dopo circa tre o quattro minuti lo raggiunsi al banco. Vidi la mia immagine riflessa nel grande specchio, mi guardai per un attimo per chiedermi chi fosse, chi voleva parlare con me. Dentro di me una vocina già mi diceva più o meno di che cosa si trattava; avevo come una sensazione di paura, d’incertezza, mi trovavo a pochi passi dall’inizio della mia rovina; da lì a poco, stava per avere inizio il mio tormentato e tortuoso calvario. Mi comportavo come quei condannati a morte che prima di salire sul patibolo si soffermano un attimo, ma solo il tempo di un’istante, per riflettere su cosa sarebbe stato giusto e cosa no, dove avevano sbagliato, e dove no. In un attimo tanti pensieri attorniarono la mia mente, belli e brutti, di tutti i tipi, in quell’istante attraverso il grande specchio, ho visto animate sull’attonito mio volto riflesso, le mie paure. Il mio accanito silenzio venne bruscamente interrotto dal barista che mi disse: allora che fai dormi? ti cercano al telefono, un tuo carissimo amico ti vuole parlare. Mi sono recato a rispondere; era il mio carissimo amico Osvaldo, mi disse che voleva parlarmi di una cosa molto importante, ed è per questo che ci demmo appuntamento per il giorno dopo alle ore dieci in quello stesso bar. Appena convenuto l’orario, e il posto dell’incontro, ci salutammo con un bell’arrivederci. Osvaldo è più vecchio di me di sei anni, siamo cresciuti nello stesso quartiere, (un brutto quartiere di periferia) poi lui ha cambiato casa, mentre io sono rimasto a sperare per un prossimo futuro migliore, E un tipo alla buona, almeno fino a quando lo conoscevo, non ha mai posseduto un lavoro fisso; all’epoca svolgeva mansioni di manodopera in modo saltuario; non molto alto di statura capelli lisci e biondi. Il suo volto rimaneva impresso per il semplice fatto che aveva un difetto congenito: era affetto dal labbro Leporino. Il giorno dopo alle ore nove e quaranta mi trovavo già al bar, (perché io per mia abitudine anticipo sempre gli appuntamenti), il tempo quella mattina non era dei migliori, pioveva a dirotto ed era di mercoledì (Quel giorno combaciava esattamente con l’inizio della mia ascesa). Puntuale come la morte alle ore dieci si presentò Osvaldo, aveva sempre il solito sorriso, tipico di lui, che poco prima di iniziare a parlare ti distraeva con i suoi denti bianchi. Ci siamo guardati negli occhi, e per un solo attimo ci siamo soffermati incrociandoci con i nostri meravigliati sguardi; meravigliati per il semplice fatto che tutto era cambiato, non avevamo più l'età che non porta rancori, la nostra tenera fanciullezza ci aveva lasciati da tempo; non credevamo più alle favole, avevamo i pensieri di gente matura. (sono convinto che sia io che lui abbiamo pensato la stessa cosa). Interrompendo frettolosamente quel flusso di sparuti ricordi, e lasciandoci alle spalle la nostra gloriosa infanzia, e destandoci dall’eterna meraviglia si l'uno che l'altro ci siamo detti: da quanto tempo che non ti si vedono, sei diventato un giovanotto, posso offrirti qualcosa? Certo dissi io prendo un’aranciata e tu? io bevo un tè, solo un gustosissimo te bello fresco alla pesca. Occupammo il posto all’angolo nei pressi della rosata tendina, parlammo di tante cose, mi disse anche che i suoi genitori erano deceduti, mi tenne informato anche di sua sorella Antonietta, dicendomi che si era risposata, (rimase vedova in giovane età, perché suo marito perse la vita in un incidente automobilistico). Le sue parole non mi convinsero molto, avevo la netta impressione di assistere ad una farsa, un discorso già programmato tipo come si fa alla recita, avevo la netta impressione che il tutto sia stato improvvisato, ma in realtà il tutto era stato studiato nei minimi particolari. Parlammo per circa un’ora rivangando la nostra tormentata gioventù, di come si viveva allora, ricordammo in modo comune delle avventure passate, mi disse ti ricordi di quando andavamo alla foce a fare il bagno, rammenti di quell’acqua fresca e incontaminata, quelli sì che erano bei tempi, noi a quell’età non portavamo rancori, vivevamo nella perenne spensieratezza, vestendo i colori del blu e del bianco; colori dell’eterna purezza. Detto questo, cambiando i toni di voce, il suo discorso confluì in un unico punto, venne al dunque, mi disse che alcune persone molto importanti volevano conoscermi, perché gli ero simpatico, e perché lui gli aveva parlato bene di me e della mia famiglia; mi disse anche che non era il caso di offenderli con un rifiuto, non sarebbe stato corretto. Al riguardo non mi eguagliò oltre circa le persone in questione. Terminata la conversazione ci salutammo da buoni amici, dicendomi che si sarebbe fatto vivo lui. Dopo alcuni giorni d’attesa mi arrivò una comunicazione per tramite il gestore del bar, un biglietto recante, una data, un posto e un’ora. Nel leggerlo, capii subito di cosa si trattasse. Mi presentai come scritto sul biglietto, alle ore venti alla fermata della filovia, poco dopo arrivò una macchina nera, lunga con i vetri imbruniti, (la tipica macchina di persone che contano), si fermo davanti a me, la portiera si aprì e vidi un uomo ben vestito, con occhiali scuri indossati; e mentre apriva la portiera per invitarmi a salire, al suo dito si poteva notare un anello con una grande pietra incastonata, una pietra preziosa di colore rosso. Mi cenno di salire facendomi accomodare sul sedile posteriore; dopodiché venni bendato, mentre la macchina si mise in movimento. Quale strada prese non lo so, sta di fatto che la macchina girò per parecchio tempo e nello stesso momento avevo l’impressione che cambiasse continuamente direzione, si fermò svariate volte per poi ripartire, quasi mi volessero disorientare, forse avevano paura che io in qualche modo avessi potuto ricostruire l’itinerario. La macchina finalmente si fermò e senza togliermi la benda penso, ma non sono sicuro lo stesso uomo mi fece accomodare accompagnandomi sottobraccio, e nel farmi sedere dopo pochi minuti mi tolsero il veto.



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Opera scritta il 30/06/2021 - 21:10
Da CIRILLO CARMINE
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