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Ni Hao

Smilzo, magro, anzi magrissimi sia lui che la moglie. Se non fosse stato per l'età che avanzava e per qualche segno del tempo che si faceva vedere sui loro volti, avresti potuto pensarli quasi eterei, un po' come due sagome che si stagliano contro il muro di un angolo buio, quasi irreali. Eppure, come si spiega quello strano fenomeno? Quello che non tornava, quello che era un mistero nel cuore della loro routine, erano i loro figli.
I due cinesi, che gestivano con passione il ristorante sulla via del passeggio turistico, vivevano tra gli involtini primavera, il riso, il bar che avevano ricavato nello spazio dietro il locale e il piccolo esercizio di fronte che avevano acquistato e dato in gestione. Tra una chiacchiera con un cliente e una risata nervosa con i dipendenti, sembravano quasi una macchina ben oliata. Il locale era sempre pieno, la clientela turistica arrivava come un fiume in piena, con i suoi curiosi, con i suoi palati assetati di "autentico" cibo orientale. La coppia, però, si distingueva non solo per la loro cucina prelibata, ma anche per la loro straordinaria gestione, che li aveva fatti entrare in simbiosi con un mondo che non era il loro, un mondo che andava ben oltre la cucina tradizionale.
Ma i figli. Quelli non si spiegavano. Come potevano due genitori così sottili, quasi fragili nella loro magrezza, avere due figli così... enormi? Eppure, c'era qualcosa che non quadra. I loro occhi a fessura, il viso tirato, i corpi che avevano superato i genitori non solo in altezza, ma anche in peso. A dieci anni, erano quasi identici ai loro genitori in un aspetto, ma in tutto il resto erano qualcosa di diametralmente opposto. Erano bambini sovrappeso, ma non per caso. Avevano quella rotondità e quella vitalità che tanto si staccavano dalla magrezza dei genitori, come se un altro genoma avesse deciso di prendere il sopravvento. Non era solo la crescita che sorprendeva, ma il comportamento. Sempre con qualcosa in mano da mangiare, come se l'atto stesso di mangiare fosse un continuo riflesso condizionato, una necessità vitale più forte di ogni altro istinto. Non c’era mai pausa, mai tregua.
E come spiegare la loro irrefrenabile voglia di cibo? Si poteva pensare a un difetto genetico? Un errore? Ma anche la genetica, alla fine, non può dare risposte certe a ogni domanda, e in questo caso sembrava che l’antica magrezza dei genitori fosse stata spazzata via dalla crescita esponenziale del bisogno di nutrimento. Piuttosto, l’unica cosa che sembrava vera era che, nel caso di quei bambini, il cibo non fosse solo una necessità, ma una costante ricerca di comfort, un rifugio dall’inquietudine della vita.
I bambini sembravano crescere davanti a una grande TV, accesi dal piccolo schermo e con lo sguardo quasi impassibile verso la loro stessa immagine che cambiava ogni giorno. La famiglia non parlava molto di altro, non si poneva domande sul perché quel fenomeno accadesse. Era un dato di fatto, e tanto bastava. La casa, che affacciava sulla via del passeggio turistico, sembrava la scenografia di un film che non faceva mai parte di una trama coerente, ma che aveva una sua bellezza in quella disarmante stranezza. E il cibo era sempre lì, come il fondamento di ogni scena.
Ma allora, come si spiega? Darwin si rivoltava nel suo cimitero, e il suo spirito si contorceva mentre Lamark si faceva beffe della sua teoria, come se fosse la più banale delle ipotesi. C’erano risate anche più sonore, quelle di Karl Marx, che senza indugi si stava divertendo, chissà perché, a guardare la scena e a ridere di cuore. L'uomo è quel che mangia, eppure la teoria non si adattava alla situazione, non riusciva a giustificare quella strana e paradossale verità. L’opulenza che i figli consumavano sembrava sfidare ogni legge, come se l’oggetto della loro fame fosse diventato non solo il cibo, ma una ricerca continua e senza freni di qualcosa che non si spiegava.
La scena della famiglia, così simile a un quadro in movimento, cominciava a prendere forme sempre più bizzarre. I genitori, con i loro corpi esili, passavano i giorni a lavorare sodo, a fare quello che avevano sempre fatto. Eppure non c’era niente che legasse il loro comportamento al destino dei figli, che cresceva in modo autonomo, in un’altra direzione. E, in fondo, non c’era neanche quella paura di cedere alla tentazione di abbuffarsi che avrebbe afflitto tanti genitori. C'era solo una passività che sembrava naturale, una fatale inerzia.
E in tutto ciò, il ristorante andava avanti. Ogni giorno, nuovi turisti affollavano i tavoli, apprezzando il cibo, scambiandosi sorrisi con i dipendenti che provenivano da ogni parte del mondo. Un melting pot perfetto, un piccolo mondo che si rifletteva perfettamente nel ristorante della coppia, dove ognuno aveva il suo ruolo e il suo scopo. Ma i bambini… i bambini erano l’enigma, un piccolo mistero che nessuno riusciva a risolvere. E, forse, era meglio così.
Perché in fondo, alla fine, l'uomo è davvero quel che mangia. E loro, i bambini, sembravano voler mangiare un'intera vita, un boccone alla volta, senza mai fermarsi.



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Racconto scritto il 05/02/2025 - 09:59
Da Glauco Ballantini
Letta n.248 volte.
Voto:
su 1 votanti


Commenti


Ben ritrovato Glauco.
È sempre un piacere leggere i tuoi racconti.
Senza fronzoli e scritti benissimo.
Un saluto

Loris Marcato 05/02/2025 - 16:10

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