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ADIOS AMIGO

Cominciai a sospettare che ci fosse qualcosa di strano quando, verso sera, sbirciai mia nonna in cucina intenta a grattuggiare tutto quel pane secco.
Navigai tutta notte in balia dei dubbi, cavalcato dalla curiosità che si intrufolava fin sotto le lenzuola finchè, al mattino, dopo colazione, mia nonna mi consegnò una teglia piena del pane grattuggiato la sera prima al quale aveva aggiunto abbondante parmigiano, sale, pepe, noce moscata ed anche qualche foglia di alloro, e mi ordinò: “Ora vai...e mi raccomando: piena fino all’orlo!”.
Prima o poi doveva succedere e, in quei giorni, ero molto triste pensando a cosa sarebbe successo e, ora che il momento era arrivato, uscii di casa piangendo a dirotto.
Quando arrivai alla casa del mia amico Franco erano già tutti là, a ridere e scherzare. Qualcuno doveva esserci andato giù pesante con il bottiglione. E non erano neanche le dieci del mattino.
D’altronde quello era un giorno di festa. Per tutti, ma non per me, ovviamente, e neanche per lui.
Anche lui era là. Sembrava quasi che sapesse che, da lì in avanti, non si sarebbe per niente divertito e, ogni tanto, alzava la testa ed ascoltava.
Ad un cenno del papà di Franco quattro uomini lasciarono la zona bevitori ed andarono a prenderlo.
E, quando lo circondarono, lui capì che il suo momento era arrivato.
Nel cortile si scatenò il finimondo. Le sue urla altissime si mescolavano alle grida e alle bestemmie degli uomini che lo rincorrevano e cercavano di bloccarlo. Per un paio di volte riuscì a divincolarsi, ma quelli gli furono di nuovo addosso e, stavolta, non ebbe più scampo.
Il papà di Franco puntò i piedi per terra e tirò la fune. Il laccio vibrò, come un suono sordo, nell’aria e si strinse serrandogli il collo, mentre lui puntava gli zoccoli e tirava nella direzione opposta.
In un attimo si ritrovò, con un balzo rumoroso, immobilizzato sopra una specie di rozza barella di legno con la testa a penzoloni a circa trenta centimetri da terra. Continuò ad urlare e le sue urla di disperazione sembravano voler arrivare fino al cielo per chiedere un ultimo gesto di pietà dall’Onnipotente.
Alla fine sputò un grido che sapeva di bruciore, schiuma bianca e sangue rappreso.
Lo legarono saldamente con le funi e il suo urlo divenne un rantolo rauco e soffocato.
Allora corsi dal papà di Franco, che stava osservando soddisfatto la scena, e mi umiliai in tutti i modi perchè facesse finire quello strazio. Promisi che non avremmo più rotto i vetri con le fionde, che non avremmo più devastato l’orto, che non avremmo più rubato la frutta dagli alberi e che, magari, lo avrei potuto aiutare a fare qualche lavoretto se solo avesse dato l’ordine di risparmiarlo.
Forse non era troppo tardi! Si...forse si poteva fare ancora qualcosa! E io avrei fatto qualsiasi cosa, qualsiasi, certamente, avrei persino...TUMPFF!
Il soffio della pistola sparachiodi mi sussurrò che la strada delle buone intenzioni era finita.
Il macellaio era uno del paese vicino e quando era ubriaco ragionava meglio di quando era sobrio.
Ripose la pistola e subito altri uomini gettarono su quel corpo, ancora scosso da tremiti, secchi su secchi di acqua bollente.
E quando iniziarono a scorticarlo con dei grossi coltellacci, mi coprii gli occhi con la maglietta.
Nel vederlo ridotto così, senza più setole, gonfio, con la pelle livida e spettrale sulla quale vene bluastre apparivano come ecchimosi, il mio cuore ebbe un sussulto chiedendo con urgenza di scappare da quel posto.
Quando poi lo appesero alle travi del portico per squartarlo non ebbi il coraggio di toccarlo e nemmeno di avvicinarmi. Mi allontanai e rimasi lì, immobile, ad un paio di metri a piangere e sperare che, all’improvviso, si rimettesse a grufolare.
Ma il macellaio, vedendo cosa avevo in mano, fece cenno di avvicinarmi. Quindi, con l'aria di chi ha vissuto abbastanza per saperne di più, mi aiutò a posizionare bene la teglia e, con un colpo secco e preciso, tagliò la gola dell’animale.
“Piena fino all’orlo!” aveva ordinato mia nonna, e piena fino all’orlo fu.
Di quello che avvenne dopo ho solo ricordi vaghi e confusi.
Il cortile era diventato l’immagine della tristezza. Gli uomini, ma anche le donne, si erano divisi i compiti.
Avevano allestito dei grossi tavolacci: c’era chi tagliava, chi affettava, chi mescolava, chi tritava e chi insaccava e mentre facevano tutto questo ridevano e scherzavano tutti. E bevevano. Alcuni bevevano direttamente dalle bottiglie.
Erano tutti come animali, in quel momento, agivano in branco ed il loro obiettivo era quello di annientare.
Una guerra rituale, come gli uomini delle caverne che avevo visto sul libro di scuola.
Ma io non li sentivo più. Erano solo una specie di nenia di sottofondo della quale non capivo le parole.
Capivo solo quelle immagini tremende e mi domandavo per quale motivo fossi convinto che sarebbe stato risparmiato. Forse perché lui mi riconosceva e mi correva incontro? Forse perché gli volevo bene?
O, forse, solo perché la mia mente di bambino non riusciva ancora a comprendere un’atrocità simile e la tristezza era un terreno che ancora non sapevo coltivare.
Fu la prima volta che provai l’angoscia della morte violenta e, con le lacrime che continuavano a solcarmi le guance e scendevano fino sul collo, contai le volte che gli avevo portato da mangiare e lo avevo accarezzato.
Girai i tacchi e me ne tornai tristemente a casa con la mia parte di bottino, accompagnato dal mormorio delle prime foglie secche sul selciato mentre il mio pensiero vagava per mondi sconosciuti nel silenzio che cela la fine di una stagione.
Quella sera non mangiai nulla, nemmeno sfiorai il contenuto della terrina che avevo portato a casa e che mia nonna aveva impastato e cotto nel forno come una torta.
Non avrei potuto farcela. Non dopo tutto quello che avevo visto.
Una cosa era comprare la carne in macelleria ed un’altra era quella di ricavarla da quello che, dopo avergli portato da mangiare per tutta l’estate, mi riconosceva quando arrivavo ed era diventato quasi come un amico.
Piansi in silenzio, per tutta la sera mentre, fuori, il mondo andava avanti lo stesso.
Avevo presenziato all’esecuzione di un amico che tanto avevo amato ed accarezzato.
Forse, quel giorno, ero diventato uomo molto prima dei miei compagni di scuola. Forse no.
Ma avevo solo otto anni e ancora tanti pelouche da coccolare, troppi album da colorare e troppi cartoni animati da vedere in TV.
Non avevo mai sentito urla simili.
Non le sentii mai più.



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Racconto scritto il 11/10/2023 - 12:54
Da Paolo Guastone
Letta n.240 volte.
Voto:
su 1 votanti


Commenti


Grazie Piccolo Fiore per aver letto il racconto ed averlo positivamente commentato. Sono contento che ti sia piaciuto. P.S. bello il tuo nickname...

Paolo Guastone 13/10/2023 - 08:17

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Un racconto,toccante, convincente e scritto benissimo. Un racconto che non lascia indifferenti. Complimenti per la bravura.

Piccolo Fiore 12/10/2023 - 17:50

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Grazie Glauco per il commento positivo. Si, è molto realistico e quasi autobiografico ma, una volta, non c'era altro.

Paolo Guastone 12/10/2023 - 10:04

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Racconto realistico come nel film "L'albero degli zoccoli" di Olmi.

Glauco Ballantini 12/10/2023 - 10:01

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Grazie Mino, troppo buono. In effetti la trama è un po' "cruda" ma era la prassi un tempo. Certo oggi le cose sono diverse ma per il povero maiale non è cambiato nulla.

Paolo Guastone 12/10/2023 - 09:26

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Narrazione precisa e realista, convincente, come tutti i tuoi racconti d'altra parte. Certo l'argomento risulta ostico e poco digeribile, per i deboli di stomaco. Ciao paolo

Mino Colosio 11/10/2023 - 17:59

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