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Vuoto (parte prima)

Le parole. Quante sono le parole? Troppe! Infinite. Quelle che si dicono e si sarebbe potuto non dire. Quelle che si pensano e si vorrebbero tanto dire. Quelle che si tacciono, per la situazione, per l’orgoglio, per tutta una serie indiscriminata di motivi senza alcuna logica. Quelle che continuano a riempirti il cervello, occupandoti neurone su neurone fino a non lasciarti più spazio. Perché si dice che le parole siano evanescenti, tutto fumo e niente arrosto, volano labili tra le nostre vite senza un contorno, una sagoma, un corpo. In realtà credo che le parole abbiano sì un corpo, per quanto solo immaginario. Ogni parola ha la propria forma, scolpita sulla mente, liberata negli angusti spazi del ricordo. Una semplice parola come ciao, nulla di eccezionale, niente di blasfemo, prende forma dentro l’immaginario collettivo e viene plasmata da delle lettere, nero su bianco, nel nostro cervello. L’udito potrebbe farti pensare che le parole dette siano al vento, volatili indistinti che viaggiano su di un fiume in piena e scompaiono subito dopo. Ma l’occhio te le fa vedere tutte, una dietro l’altra, nella loro forma corporea e definita.
Ci sono quelle parole che ti offendono, ti pugnalano. Quelle che ti accarezzano, ti abbracciano. Quelle che ti spiegano, ti rassicurano. Insomma ci sono quelle che ti riempiono, nel brutto e nel bello, e fanno di te un uomo. Fino ad arrivare a quelle che ti svuotano, lascandoti solo con un vuoto, greve, pesante, da doverci convivere per tutta la vita.
Erano passati anni. Troppi anni. Da quell’ultima parola famosa: ciao. Era stata l’ultima di una lunga serie, di dette e non dette, di nascoste ma percepibili, buttate nel piatto a creare un pasticciaccio indigeribile. Ma solo quell’ultima riuscì a svuotarmi.
Per tutta la vita, gli dissi. Per tutta la vita. Fossero stati solo pochi mesi mi sarei pure accontentato. Ma per tutta la vita era troppo lunga come cosa. Potevo accettare i motivi, le scuse, i lavori e gli studi. Ma non potevo accettare quel tempo indefinito: la vita.
Quanto sarebbe durata? Chi poteva saperlo. Poteva essere un’ora o anche cent’anni, ad essere pessimisti. Ma sapevo comunque che sarebbe durata troppo a lungo.
Chiudo lo sportello. Ora sono pronto, posso andare. Andare incontro al destino, predetto e non detto. Al ricordo di quelle passate, vissute, intense e non, di quell’amore che fu e che da anni ormai non si faceva più sentire.
Saranno passati vent’anni. Venti interminabili anni da quando ci lasciammo. Da quando mi lasciò. Un amore giovanile, pieno di sogni e speranze, infranto da una crescita la quale aveva soppiantato i nostri sogni e le nostre speranze con i dettami dell’età adulta, con i propri progetti e le proprie ambizioni. Non c’è nulla di più brutto che crescere e scoprire che le proprie ragioni vanno contro i propri sentimenti, che le cose che prima erano nostre passano di colpo ad essere tue. E mie. Distanti.
Lei era partita per la grande città europea. Io ero rimasto per la piccola provincia locale. Lei aveva studiato distante, fuori, lontana da tutti ma vicino a tutto. Io mi ero accontentato di stare vicino a tutti e lontano da tutto.
Una storia a distanza? Una storia a distanza sì, mi disse. E quanto potremmo durare? Giorni, mesi, anni? Non sono sicuro. Durerà quel che deve durare, mi fece lei. E infatti non durò. Poco più d’un anno e basta. Mi ritrovai piantato. L’amore era svanito.
Non sono più innamorata di te, mi disse. Come volevo non credere a quelle parole. E come mi fu difficile accettarle. Ma non furono quelle a svuotarmi. Fu quel ciao finale a troncare tutto. A svuotarmi definitivamente.
Allora mi chiedo: quante sono le parole? Troppe! Infinite. Hanno un peso, sempre e comunque, e ti accompagnano nel corso dell’esistenza. Un peso che è difficile tradurre in grammi, in chilogrammi. Sarebbe più facile stenderle in fila indiana e soppesarle una ad una, senza lasciarne nessuna esclusa. Ci potrebbero volere milioni di anni, ma almeno i nostri posteri avrebbero un sistema per catalogarle e dividere quelle ad uso e consumo da quelle pericolose e inviolabili.
Ma è una sciocchezza. Una stronzata. Un ciao non ha fatto mai male a nessuno. Non mi è mai giunta voce di qualcuno a cui un ciao avesse tentato di togliergli la vita. Parola killer! Da cercare e mettere agli arresti. Cercare un buon avvocato che sia pronto a battersi per il bene comune contro quella parola e sia pronto a convincere un magistrato che va messa al bando. E che non si può rinchiudere una parola. Non la si può scrivere su di un quaderno, rinchiuderlo in uno scrigno e sotterrarlo sotto la sabbia della più remota isola di cui nessuno deve sapere l’esistenza. Perché tanto sappiamo che quella parola ti ritorna, come un boomerang, e ti riporta quella sensazione di vuoto, di solitudine.
«Ciao!», ed eccola.
Lì, seduta su di una panchina a cinquanta metri da me. Che dice subito quella prima parola che mai avrei più voluto sentire dalla sua bocca. Poteva dirmi di tutto: come va? come stai? tutto a posto? cosa si dice eccetera. Ma queste buone maniere del piffero ti obbligano a salutare prima di principiare qualsiasi cosa.
«Vieni, Matti! Cosa fai?».
«Arrivo!».
Seduti, uno accanto all’altro. Ci diamo due baci sulla guancia: adempimento delle banali leggi sociali non scritte. Le guardo le mani: ancora morbide e piccole. Alzo gli occhi e le guardo il viso: giovinezza corrotta dal tempo, quel nero contaminato dal bianco e appena un accenno di rughe. Sei maturata. Sulla soglia dei quaranta. Ma sei pur sempre bellissima.
«Ancora ti trovo in forma», mi sorride.
«Quarant’anni e non sentirli», gli rispondo.
Iniziamo a parlare delle rispettive vite, dei rispettivi lavori, dei condivisi ricordi…


Nevicava. La neve cadeva a fiocchi quella notte. Era morbida, setosa. Pareva un’infinità di batuffoli di cotone che finivano per infrangersi per terra o sulle nostre figure. Più che infrangersi, parevano appoggiarsi delicatamente facendo il minimo rumore necessario per non rovinare il silenzio circostante. Quel silenzio rotto dai nostri battiti, dai nostri respiri e infine da quei fiocchi di neve. Avrei potuto descriverti uno ad uno le differenze di tono, di intensità, di timbro che ogni fiocco produceva nel poggiarsi su di un albero, su di una macchina, sopra la neve fresca, su di me e su di te.
Nel silenzio circostante. Anche se non esiste un vero silenzio. Ogni silenzio è imbrigliato in una rete di piccoli rumori comuni, ne è avvolto, ne è intriso. Un puro silenzio spaventa, atterrisce: non udire i propri passi, non sentire il proprio respiro, non percepire i propri battiti. Forse quella rete di piccoli rumori sta lì proprio per proteggerci, per rassicurarci. Se non ci fosse forse avremo tutti molto più paura del silenzio.
Ma c’eri tu al mio fianco quella notte. Avevamo corso inseguendoci sotto la neve e sopra la neve. Ci eravamo ritrovati in un campo completamente bianco, un lenzuolo steso con qualche piega rovinato solo dai nostri passi. La luna rifletteva i raggi altrui su quel manto bianco, mostrandoci tutte le meraviglie di quella notte.
Faceva freddo sì. Ma non aderiva su di noi. Coi piedi sotto quaranta centimetri di neve, i pantaloni bagnati, le spalle bianche, i cappelli di lana intrisi fino alle orecchie, senza guanti, ormai gettati a qualche metro di distanza, stavamo uno di fronte all’altro e ci guardavamo negli occhi. I nostri respiri si scontravano e andavano a sommarsi. Potevo sentire il tuo cuore scandire, battito dopo battito, il ritmo della tua vita. Proprio accanto al mio.
Poi feci una cosa banale ma che non potevo non fare: ti presi le mani, piccole gemme avvolte dalla pesante pressione delle mie, le alzai fin sopra le spalle, le tue braccia tese e le mie un poco genuflesse, sempre uno di fronte all’altro, ti sorrisi e mi gettai all’indietro, nel vuoto.
E fu quel manto di neve ad attutire la caduta. Eravamo sprofondati sotto i quaranta centimetri di neve. Il mio corpo era tutto avvolto dalla neve fresca, era come se fosse diventata un muro che mi riparava dalle intemperie del mondo. Tu, sopra di me, ancora mi guardavi e mi scaldavi. Eri diventata la mia coperta. La mia calda coperta a difesa del freddo della notte.
E toccò a te fare il prossimo passo: difatti cominciasti a ridere ed a muovere le braccia, sempre legate alle mie, su e giù, giù e su. Quando pensasti fosse giunto il momento mi baciasti e ci alzammo insieme per vedere quello che avevamo appena creato.
Un angelo. Un angioletto scolpito sulla neve. Sagomato dai nostri corpi nel soffice manto nevoso. Pareva proprio volesse liberarsi dalla sua prigione di ghiaccio e librarsi in aria, libero, senza alcuna costrizione terrena, senza alcuna remore, senza nessuno di quegli obblighi terrestri che ci tengono inchiodati qui a terra e non ci permettono di volarcene via. Fin dove le nuvole si accampano aspettando solo che un refolo se le porti via a spasso per il mondo.
Poi continuammo a correre nella notte. Io ti inseguivo e tu mi fuggivi. Era un gioco, uno stupido gioco. Due innamorati che si inseguono fino ad arrivare in un punto qualunque. Non è importante il luogo ma è importante con chi ci arrivi. Difatti eravamo giunti in un piccolo capanno portattrezzi di uno sconosciuto. Lo violammo. Ci facemmo l’amore in piedi: tu appoggiata ad una trave qualunque e io subito dietro. Girata col volto verso di me potevo sentire tutti i tuoi gemiti congiungersi ai miei, quella bocca socchiusa che baciavo a non finire, quegli occhi felini che mi riempivano di una vorace passione.


«Mi piace pensare che quell’angioletto sia ancora lì».
«Fatto a pezzi da una mietibatte qualunque».
«Eh dai! Non è vero».
«Sono passati più di vent’anni. Immagini quanto grano è stato piantato e poi falciato in quel campo?».
«Ma il nostro angioletto sarà riuscito a liberarsi. Magari è volato via chissà dove».
«O si è sciolto la settimana dopo con…».
«Perché devi dire questo? Non ti piace pensare che si sia liberato da tutto e da tutti e sia volato via…».
«Da tutti chi? Non aveva altro che noi».
«Va be’, non volevo intendere…».
«No, ma sicuro a cessato di esistere in quel preciso istante».
«Quando ci siamo lasciati?».
«In realtà, mi hai lasciato tu» e gli sorrido.
È stupido lo ammetto. Sorridere a quella frase. Sa di essere stata lei a lasciarmi e io gliel’ho voluto sottolineare con questo sorriso. Se avessi uno specchio proprio qui davanti, al posto suo, sono sicuro che avrei una faccia da idiota. Invece ci sei te che mi sorridi a tua volta. Ma il tuo sorriso è diverso: mentre il mio è cinico, il tuo è amaro.
«Cosa avrei dovuto fare?».
«Niente. Guarda che non ti sto accusando, sono passati tanti anni».
«Troppi?».
«Giusti. E poi, sotto sotto, non ti meritavo».
Ecco, l’ho detto. Non avrei voluto ma l’ho detto. Perché l’ho sempre pensato ma sempre taciuto. Pure dopo quell’ultimo giorno avrei voluto dirlo, ma non ne ebbi il coraggio. Il coraggio di dire una frase, tre parole messe in fila: non ti merito. Non ne ebbi il coraggio. Come fai a trovare il coraggio di dire certe cose, al momento giusto e nel posto giusto, senza censure e senza riempitivi, buttarle lì come se niente fosse e parlarne? Non ce la feci quella volta ma adesso sì.
«Lo sai che non è vero, Matti?».
«Non ti preoccupare. Non ero abbastanza per te…».
Non ero abbastanza per noi…


C’era musica tutt’intorno. Le casse risuonavano, rimbombavano a tutto volume dentro quello stanzone affollato. C’erano i ragazzi che sudavano e ci provavano. Le ragazze che ballavano e ci stavano. C’era tutta la giovinezza in quella stanza. Tutti in pista a divertirsi come forsennati. I banconi erano pieni di gente in fila per un merdoso cocktail. I bagni pulsavano di gente che si faceva una sniffata, una cannetta o anche chi ci portava dentro la ragazza appena rimorchiata, come uno cacciatore che si porta la propria selvaggina fino casa. Negli angoli c’erano quelli che vomitavano. C’erano stupidi pompati che facevano a botte per il gusto di fare a botte. Ragazzine tutte scosciate che mostravano la mercanzia come un pescatore mostra il pescato. C’erano i buttafuori che se la prendevano con i ragazzini ubriachi che non riuscivano a reggersi in piedi. C’era gente che rideva, che pomiciava, che scalpitava. E poi c’eravamo noi.
In mezzo alla pista da ballo. Intenti a ballare, a sudare, a sorriderci e a pomiciare. Eravamo scappati da tutto e da tutti. Una notte di follia a cento chilometri da casa. Solo noi due. Il resto? Un branco di sconosciuti che sarebbero dovuti rimanere tali. Volevamo solo sfogarci ballando, io e te, insieme in quella discoteca sconosciuta. Non stavamo insieme da una vita ma da poco più di un anno. Ma avevamo bisogno di fuggire via e rimanere solo noi per i fatti nostri lo stesso.
E ci stavamo divertendo. Abbiamo ballato per tre ore filate finché non siamo usciti fuori a fumarci una sigaretta. I cinque minuti d’aria. I cinque minuti di riposo da tutto quello sbattersi, dall’aria pesante della sala affollata.
Quando ci siamo accorti di non avere l’accendino. Uno stupido accendino. Lo chiedemmo a due ragazze che stavano sedute su di un muretto a parlare e fumare. Perché non lo chiediamo a loro, mi dissi. Ma certo che male c’era. Non poteva esserci nulla di male. chiedere l’accendino a due ragazze di manco diciott’anni e poi tornare per i fatti nostri.
Non fu così. Tu iniziasti a parlargli e io pure. Cominciammo qualcosa che assomigliava ad una futile conversazione: di dove siete, come vi chiamate, da quanto tempo state insieme eccetera eccetera. Fino ad arrivare al punto: sei così bella, lui non è abbastanza per te. Ci disse una delle due. Sorrise poi. Mi disse che stava scherzando, di non prendermela. E non lo feci.
Tornammo dentro a ballare, a sudare, a pomiciare. E intanto io rimuginavo quelle parole. Pesanti come macigni. Affilate come mille coltelli. Devastanti come una bomba atomica.
Finita la serata ne parlammo, certo! Giungemmo tutti e due alla stessa conclusione: quella ragazzina era una cogliona. Io aggiunsi pure stronza. Se le meritava tutte quelle parole. Aveva cercato di far vacillare la nostra relazione puntandomi contro il dito: tu non sei abbastanza per lei. Ma perché non poteva farsi i cazzi suoi, ti chiesi. E iniziai a pensare che era vero, che non ti meritavo, che avresti potuto trovare di meglio. Tu mi rassicuravi, mi proteggevi, mi facevi ragionare. Ma ormai il treno era partito e non lo si poteva più fermare.
E la prima fermata sappiamo troppo bene quale che fu: la gelosia. Una gelosia incomprensibile. Non avevo niente per esserlo ma non riuscivo a scacciarla. Si era impiantata su di me come un virus, la peste bubbonica dell’amore, e aveva principiato a farmi vacillare, a farmi cedere. Alle volte scompariva ma poi riappariva sempre più tenace e convinta. Ma nel profondo sapevo che avevi ragione tu, ma non potevo accettarlo.
Non sono abbastanza per te. Un ritornello. Un evergreen. Tu sei anche troppo per me, la tua risposta. Magari c’avessi creduto. Magari avessi accettato le tue parole. Ma non riuscirono mai ad abbattere quel terribile mostro che ci aveva plasmato. Che mi aveva posseduto.


«Ma ormai è passato tanto tempo».
«Troppo?».
«Giusto. Le ferite si cicatrizzano e la vita va avanti».
«E sei andato avanti?».
«Certo. Come te, d’altronde».
«Ti sei sposato, hai fatto dei figli…».
«Ho perso un padre, ma ho ancora una madre, non sono ancora diventato un povero orfanello. Tu? Niente figli, niente marito…».
«Non ho trovato l’uomo giusto».
«Giusto per cosa?».
Ecco, ho detto pure questa. Non l’ho punzecchiata abbastanza? Serviva proprio dire quest’ultima frase? No, non serviva. Ma ormai l’ho detta e non potevo farci niente. L’avevo detta pure in quell’ultimo giorno, sotto le sue lacrime. Lacrime di coccodrillo, gli dissi. Ma la verità era che quelle lacrime la rendevano ancora più bella di quanto già era.
«Cosa ci può essere di giusto in un uomo?».
«Non lo so. Le scarpe?».
«Eh! Non ho più fatto quel gioco da allora, sai?».
«Io, ogni tanto, continuo a farlo».
«Ma tu non eri così bravo. Io ero la campionessa indiscussa! E poi tu guardavi solo i culi delle altre ragazze».
«Cosa potevo farci? Stavano tutte lì a mettermelo in mostra» e sorrido.
«Bugiardo» e sorride.
Sì, sono un bugiardo…


Quello è un medico. Quella una modella. Non è che se una ragazza ha un bel sedere dev’essere per forza una modella. Ma secondo me quella lo è. Io ho un bel sedere, ma non sono una modella. Ma potresti esserlo.
Seduti sul muretto di una fontana di una grande città, ci eravamo messi a guardare le scarpe delle altre persone che ne affollavano le vie. Tu che cercavi di riconoscere dalle scarpe la professione. Io che guardavo i culi sodi di tutte le ragazze. Delle loro scarpe me ne fregavo altamente.
Quello è un ragioniere. Banale. Ma lo è. Quella è una segretaria. Solo perché ha un bel sedere e un paio di occhiali non vuol dire che lo sia. Ma lo è. Sei il solito scemo.
Non mi importava niente delle scarpe. Ammetto, guardavo i sederi delle altre ragazze. Ma tutti quelli che guardavo, in quel periodo, non riuscivo a trovarne uno migliore del tuo. Era così. Tutti i culi mi portavano al tuo. Bello, sodo, come altre milioni di ragazze. Ma il tuo era sempre il migliore. Non so perché, ma era come un fortino a difesa del nostro amore: guardare le altre ragazze e fartelo notare era per il semplice fatto di dimostrarti che eri tu la migliore. Pure se davanti mi trovavo la più bella e perfetta ragazza del mondo, non era niente in confronto a te.
Quello dev’essere un poco di buono. Perché? Dai, ma gli hai visto le scarpe? A me sembrano normalissime. Perché stai guardando il culo di quella. Non è vero! Allora che scarpe aveva? Chi? Il poco di buono ch’è appena passato. Sai che non son bravo a riconoscere le marche. Bugiardo.
Il solito. Piccoli screzi che servono in tutte le coppie. Quegli screzi che servono a crescere, a maturare, a fiorire. Erano belli, perché riuscivano a farci ridere e divertire, a coltivare quel piccolo amore in un mondo confuso e pieno di roba. Erano loro a sancire il nostro affetto, il nostro amore. Era la parte che mi divertiva di più: guardare le altre e creare dei piccoli dissensi che poi culminavano in piccoli screzi che ci rafforzavano, ci univano ancora di più. Screzi che riuscivano ad allacciarci con un filo invisibile che si creava tra noi. Si tendeva all’inverosimile fino a farci sentire felici, senza se e senza ma. Felici dell’uno e dell’altro. Felici di noi. Nel temuto attimo che poi, quel filo, si sarebbe disfatto di punto in bianco. Lasciandoci tristi senza neanche volerlo. Lasciandomi solo senza di te.


«Cosa hai detto a tua moglie?».
«Che cenavo da mamma e poi sarei rimasto a dormire lì».
«Quindi ammetti di essere un bugiardo?».
«Sono bugie a scopo benefico. Non volevo farla stare in pensiero».
«Quindi non sa che ci saremo visti?».
«No».
«E del fatto che dormi da tua madre?».
«Cosa fai? Mi fai il terzo grado?».
«Sì!».
«Va bene. Comunque, abito lontano da mamma quindi mia moglie, per non farmi prendere la macchina e rischiare di avermi nella coscienza, mi lascia dormire da lei».
«Un’ottima scusa, direi».
«Ah, non è mica una scusa! È la verità».
«Però è stata una scusa per vedermi».
«Un po’. Ma tu?».
«Io non devo rendere conto a nessuno».
«Ma ci sarà qualcuno».
«Come fai a dirlo?».
«Be’, ancora sei una bellissima ragazza e…».
«E?».
«E scommetto che hai ancora un bel culo» e sorrido.
«Ehi?!» e sorride.
È ancora bello il suo sorriso. Tale e quale a quello che aveva quando l’ho conosciuta.
«Ti ricordi quando ci siamo conosciuti?».
«Quando mi hai rimorchiato abilmente?».
«Merito del caso».
«Chiamalo come vuoi» e continua a sorridermi.
Il caso. Merito del caso che ci fece incontrare. Merito del caso che mi fece avvicinarla. Tutto merito del caso…




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Racconto scritto il 29/04/2020 - 08:04
Da Boris Gant
Letta n.584 volte.
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