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Il Venditore di Sogni

La prima volta che ebbi a che fare con lui ero poco più di un marmocchio che aveva appena imparato a stare in piedi con le proprie gambe e traballava tra pozzanghere, orti e muri scalcinati.
Ricordi lontani, di una casa che oggi non c’è più e della gente che ci viveva, scomparsa pure quella.
A quel tempo abitavo in campagna, in una cascina poco fuori da un piccolo paese qualsiasi appiccicato nel mezzo della grande pianura. Quattro case con in mezzo l’aia, una stalla, il fienile ed un magazzino con il porticato, sperdute nella nebbia di inverno, soffocate in mezzo al granoturco bruciato dal sole, d’estate.
Un’unica strada sterrata usciva dall’aia e arrivava, dopo un paio di chilometri, al paese che se ne stava tranquillo al di là dei pioppeti con il suo municipio, la chiesa e la piazza con in mezzo il monumento ai Caduti.
C’era anche una piccola bottega, ma le donne della cascina ci andavano di rado.
L’orto e il pollaio, senza troppi slanci di generosità, davano di che vivere. Il pane si faceva in casa e la carne in tavola ogni tanto c’era e ogni tanto no. Le donne non perdevano tempo a scendere in paese, soprattutto quando il sole picchiava forte o la strada era allagata per le piogge e, se avevano bisogno di qualcosa di particolare, aspettavano che passasse Giovannone con il suo furgone sgangherato.
Giovannone era un venditore ambulante e possedeva un vecchio furgone Fiat “1100T” che, a guardarlo con attenzione, doveva essere di colore verde pallido sopra la linea dei fanali e beige sulle fiancate.
Nessuno riusciva a capire come un ferrovecchio simile potesse essere ancora in circolazione. Era orrendo ed aveva un aspetto malato e marcio. La cabina era coperta di ruggine, il parabrezza crepato, un fanale rotto e il cassone non se la passava certo meglio. Sempre impolverato com’era, si poteva ben mimetizzare con la terra dei cortili o con il ghiaietto delle strade.
Questo furgone, che oggi non susciterebbe neanche l’interesse di uno sfasciacarrozze da quattro soldi, allora suscitava la rabbia di chi aveva la sventura di trovarsi sulla sua strada, perché Giovannone teneva sempre un’andatura da lumaca, ammorbando l’aria con fumi pestilenziali, e non cedeva mai il passo, nemmeno se dietro di lui ci fosse stato il Padreterno in persona.
Giovannone capitava in cascina almeno una volta la settimana e, quando arrivava, il suo furgone era sempre annunciato da scoppi fragorosi e da un denso fumo oleoso. Poi a sobbalzi, come se avesse il singhiozzo, il furgone appariva svoltando dalla curva del mulino, passava sul ponte del canale di irrigazione e si arrestava esanime all’inizio dell’aia, proprio ai piedi del grosso silo di cemento.
Il suo pezzo forte erano scope e detersivi, ma era fornito anche di tovaglie, grembiuli e pantaloni. Poi aveva servizi di piatti, che dovevano risalire al tempo dei Fenici, bicchieri di varie forme, brocche, vasi di terracotta ed un buon numero di utensili per la casa.
Chiudevano il catalogo della ditta cappelli di paglia, zoccoli di legno, fili, aghi e bottoni e, dulcis in fundo, è il caso di dirlo, vasi di vetro con dentro caramelle vecchie di mille anni, appiccicate insieme in un ammasso informe, e altri dolciumi fatti con fichi secchi, polvere di strada, carrube e mosche.
Quando aveva servito tutti, tirava fuori dalla cabina una sediaccia pieghevole, ma spesso si sedeva sul cassone stesso e si accendeva l’immancabile mezzo sigaro. Poi si metteva a parlare con noi bambini. Ci raccontava di cose meravigliose che nessuno, tranne lui, aveva mai visto. Si perdeva in lunghi monologhi infarciti di ingarbugliate citazioni geografiche e descrizioni di paesaggi: fiumi di parole che alle nostre orecchie di bambini suonavano perlopiù incomprensibili ma, nello stesso tempo, misteriose e magiche.
Quanto riusciva a sbalordirci quando tirava fuori tutte quelle meraviglie! Eravamo così assorbiti dai suoi discorsi che sembravamo le statuine del presepio.
Ma ciò che ci faceva rimanere di sasso erano le sue carte geografiche, delle “ATLAS” originali degli Stati Uniti d’America.
Erano vecchie carte geografiche sporche di caffè, vino e olio motore, sicuramente recuperate sgomberando qualche vecchio solaio ammuffito. Quando era in buona, Giovannone ne apriva una, raccoglieva da terra un rametto e, come fosse un antico cantastorie, ci mostrava le grandi città, le lunghe interstatali, i deserti, e le catene montuose.
Noi restavamo letteralmente a bocca aperta nel vedere che esistevano veramente posti come Yuma, Flagstaff, il Gran Canyon, Abilene e Tucson, tutti quei luoghi che popolavano i miseri giornaletti di cowboys, sgualciti e a pezzi, che trovavamo ogni tanto nella discarica.
Che posti dovevano essere!
Terminato il racconto tornava in cabina, si sdraiava sul sedile allungando i grossi piedi al di là della portiera aperta e si concedeva un sonnellino, russando così fragorosamente da poter ben competere con il frastuono prodotto dal motore asmatico del suo furgone.
Allora noi, galvanizzati da ciò che avevamo appena visto, partivamo a razzo e le nostre biciclette diventavano, per miracolo, focosi mustangs purosangue che galoppavano non più tra fossi e campi di granoturco ma nelle sterminate praterie assolate dell’Arizona, sferzate dal vento e insidiate da banditi senza scrupoli o pellerossa sul sentiero di guerra.
Il mio rapporto con lui cambiò quando un giorno, dopo che tutti se ne erano andati, mi fece un cenno e mi prese da parte. Ero molto giù di corda e lui se ne era accorto. Al mattino a scuola avevo preso un brutto voto e la maestra mi aveva elargito una buona dose di bacchettate. A casa, poi, avevo preso il resto.
Giovannone si accertò che non ci fosse nessuno in giro e, sottovoce, mi disse di salire sul cassone e vedere cosa c’era in quello scatolone in fondo, vicino alla ruota di scorta. Sentivo ancora pulsare il dolore per le botte che avevo preso e non ero proprio in vena di giochetti e stupidi indovinelli.
Oltretutto, ero tutt’altro che convinto di trovare qualcosa di interessante in mezzo a tutta quella roba: “Cosa vuoi che ci sia!”, sbottai, “Troverò le solite cianfrusaglie o, al massimo, qualche topo…..”.
Allora corrucciai la fronte e mi piantai davanti a lui, con le braccia incrociate, guardandolo con aria di sfida.
Lui mi fissò sorridendo con quella boccaccia piena di denti cariati e segnati dal troppo fumo e, lisciandosi i lunghi baffi neri, sentenziò con aria saccente: “Eppure, secondo me, faresti meglio a guardarci….”. Io, più per dimostrargli che aveva torto che per reale convinzione, sgattaiolai all’interno e rovesciai quello scatolone lercio e umido di muffa liberando le più orribili cianfrusaglie.
“Mi hai preso in giro!”, gridai, mentre grosse lacrime mi rigavano le guance. Lui, impassibile, continuò a lisciarsi i baffi con quelle manacce sporche di nicotina e di grasso. Piangendo, gettai all’aria il contenuto dello scatolone: “Lo vedi! Ci sono solo schifezze …e…”, e come di incanto, tra tutte quelle cose inutili, saltò fuori un pacchetto avvolto nella carta oleata. Lo scartai con trepidazione e quale fu la mia meraviglia nello scoprire un’automobilina di latta! Chissà dove l’aveva trovata! Ma soprattutto l’aveva riparata e lucidata con cura. Solo per me!
Non avevo mai avuto un giocattolo. Ero talmente felice che in un attimo dimenticai le botte e le umiliazioni del mattino. Giovannone allora mi prese per mano, avvicinò a me il suo faccione truce, ma nello stesso tempo bonario, e mi disse con voce pacata: “Ragazzo mio, non lasciarti mai ingannare dalle apparenze, spesso la felicità può essere più vicina di quello che sembra…..”.
Qualche tempo dopo lo incontrai sulla stradina che portava in paese. Camminavo lentamente a testa bassa, con le mani ben piantate nelle tasche dei pantaloni, e ce l’avevo con tutti. Giovannone mi vide e si fermò nello slargo accanto alla chiusa della roggia Nuova. Scese dal furgone e, dopo aver osservato perplesso la mia espressione del volto, mi domandò se per caso fosse cascato il mondo.
Gli spiegai che, molto più semplicemente, la scuola era finita e che, anche per quell’anno, non sarei andato al mare. Di soldi non ce ne erano e, del resto, una spesa del genere non aveva mai fatto parte del bilancio familiare.
Allora Giovannone mi squadrò attentamente e disse: “Bah…. il mare non è poi così lontano!”.
Trovai strano che un’affermazione del genere fosse fatta da uno che, in vita sua, non si era mai spinto fuori da un mondo di pochi chilometri quadrati fatti di campi, strade fangose e case che stavano in piedi per miracolo.
Giovannone si accorse del mio imbarazzo. “Il pensiero viaggia più veloce della luce!”, disse scandendo le parole, “Se non puoi viaggiare con il corpo, fallo con la mente!”.
Una brezza leggera agitava lentamente le cime degli alberi. Giovannone prese una di quelle carte geografiche che ben conoscevo e, aprendola davanti a me, disse sottovoce: “Guarda, dal confine Canadese prendiamo l’autostrada 281 fino all’incrocio con la 60 Est che lasceremo ad Amarillo per andare sulla 40 in direzione del Messico...”.
Man mano che Giovannone indicava il tragitto sulla cartina, ne parlava con tale minuzia che mi sembrava di essere là e di vedere veramente il paesaggio che scorreva, fuori da un finestrino immaginario, passando per grandi città e deserti sconfinati. “Attento adesso!”, proseguì, “Possiamo prendere la 247 verso Sud e poi ancora giù con la 74, passando per Palm Springs, fino alla California, fino al grande e sterminato Oceano….”.
Non ci potevo credere. Avevo veramente viaggiato! Senza muovermi da quella piccola stradina di campagna, avevo veramente visto tutti quei luoghi e, adesso che il viaggio era finito, mi sembrava di sentire pure il mormorio della risacca!
“Immagina le mete dei tuoi viaggi e ritrova le sensazioni dentro di te!”, concluse Giovannone, poi ripiegò la cartina e me la consegnò: “Conservala con cura!”, disse solennemente, “Sarà il tuo passaporto per i sogni….”.
Il tempo passò e le automobili, sempre più alla portata di tutti, accorciarono il tragitto verso il paese e anche verso la città. Nonostante questo, Giovannone continuava imperterrito nei suoi giri per il circondario, anche se le sue visite si erano alquanto diradate.
Lo incontrai in paese pochi giorni dopo che ero rientrato dal servizio militare. Il suo furgone era parcheggiato in piazza, a fianco del monumento ai Caduti, con il cassone aperto a mostrare tutta la mercanzia.
Ma non c’era nessun cliente.
Giovannone se ne stava seduto in cabina, con il braccio fuori dal finestrino, a fumare l’ennesimo mozzicone di sigaro e ad osservare le nuvole che si rincorrevano nel cielo.
Mi ricordavo che, di solito, attorno al suo furgone c’era sempre tanta gente. Quella volta no. Mi avvicinai e gli chiesi come mai ci fosse tutto quel deserto. “Ragazzo mio, i tempi cambiano.…”, rispose buttando fuori una boccata di fumo. “Una volta la gente veniva, perché trovava quello di cui aveva bisogno, ma anche per fare quattro chiacchiere. Avevo il mio bel giro di clienti e molti di loro si fermavano volentieri solo per parlare un po’, anche se non dovevano comperare nulla….”.
Buttò per terra il mozzicone del sigaro e scese a sgranchirsi le gambe.
“Al giorno d’oggi nessuno ha più bisogno di me!”, proseguì, “Tutti hanno fretta, possiedono un’automobile e se ne vanno fino in città per comprare quello che gli serve. Anche quello che non gli serve. Nei nuovi magazzini c’è di tutto e tutto è in bella vista. Non c’è neanche bisogno di chiedere. Scegli quello che vuoi, paghi e via di corsa…..”.
Le nuvole spinte dal vento disegnavano forme bizzarre nel cielo. Giovannone cominciò ad armeggiare per chiudere i montanti del cassone.
Ad un tratto si fermò di colpo e mi fissò. “La televisione di oggi ti fa vedere un mondo perfetto dove tutti sono ricchi, belli e puliti”, disse con un tono di voce cupo. Poi, indicando il furgone, aggiunse: “E ho idea che in quel mondo la gente si vergogni di vedere un relitto come questo e un orso come me che ci dorme dentro!”.
Me ne tornai a casa chiedendomi se avessi potuto fare qualcosa per lui.
Ma non avevo tempo per quelle cose: ne avevo abbastanza della campagna e volevo iscrivermi all’università.
Per potermi pagare gli studi, avevo trovato un lavoro in città dove, a giorni, mi sarei trasferito in un monolocale preso in affitto.
Parecchi mesi dopo tornai in cascina a trovare i miei genitori e vidi che il furgone di Giovannone era parcheggiato al limitare dell’aia, ormai invasa dalle erbacce, proprio accanto al vecchio silo di cemento ora sigillato con calce e mattoni.
Lui, naturalmente, se ne stava sdraiato in cabina con i piedi allungati al di fuori della portiera aperta.
Gli chiesi come se la passava. “Gli affari precipitano, ragazzo mio, proprio come la mia salute!”, mi rispose sfoderando il suo solito sorriso a ventotto denti e quattro capsule davvero irresistibile.
Scese dal furgone e notai che i suoi capelli si erano fatti completamente bianchi. Il passo non era più spavaldo e sicuro come una volta, ma il fumo del sigaro lo circondava sempre come se fosse il velo di una sposa.
“La gente dice che i miei prezzi sono troppo cari e che in città c’è più scelta e la roba è più bella!”, disse con voce ferma, “Quelli che una volta correvano da me adesso dicono che sono uno straccione che vende solo schifezze!”.
Pensai che questo giudizio non fosse del tutto errato. “Sarà anche vero!”, disse abbassando gli occhi come se mi avesse letto nel pensiero, “Ma io ho solo questo di cui vivere e, bada bene, spendo solo per comprare quel poco che è necessario per tirare avanti. Non mi concedo lussi che vadano al di fuori di mezzo sigaro, un giorno sì e parecchi no!”.
Mi vergognai come un ladro e cercai di balbettare qualcosa, ma lui proseguì: “E con il cibo le cose non è che vadano meglio! Mi accontento di un pezzo di pane, un po’di salame, e, ogni tanto, un sorso di vino. Ma anche questi costano! Una volta c’era sempre qualcuno che mi regalava qualcosa, ma oggi nessuno mi dà più nulla e mi devo arrangiare da solo. Devo comprare la benzina per il furgone e anche questa aumenta sempre di più…..”.
Giovannone aveva le lacrime agli occhi e la voce che tremava. “Allora risparmio su tutto, anche sui vestiti come puoi ben vedere, ma non basta mai!”.
Un grosso gatto grigio attraversò pigramente l’aia e si infilò tra le erbacce dietro il silo.
“Mi tocca ancora andare in giro, come una volta....”, andò avanti con lo sguardo rivolto altrove, “Ma oggi lo faccio più che altro per.…”, si interruppe per riprendere fiato, ma la voce si spezzò definitivamente ed il pianto divenne irrefrenabile: “Ma sì, chiamiamola con il suo nome! Elemosina, ecco la parola giusta!”.
Tirò un lungo sospiro e si asciugò il viso con la manica del giaccone consunto. “Infine c’è questo…”, disse tra i denti tirando fuori un foglio dal cassetto del cruscotto.
La settimana prima aveva portato il furgone dal meccanico per l’ennesima revisione. Nel foglio c’era l’elenco minuzioso dei tanti interventi da fare e dei troppi pezzi malandati da sostituire. Il meccanico non aveva più occhi da chiudere e, questa volta, non aveva fatto sconti.
Sul foglio c’era scritta una sentenza capitale: secondo la legge, Giovannone aveva trenta giorni di tempo per mettersi in regola, pena la confisca del veicolo.
“Questa sì che è bella!”, sbottò agitando il foglio, “Neanche se avessi trenta anni a disposizione riuscirei a mettere da parte tutto il denaro che mi serve!”.
Abbassai lo sguardo senza sapere cosa dire.
“Però, qualcosa è ancora rimasto!”, disse soffiandosi il naso con un fazzolettone a quadri che aveva passato certamente tempi migliori.
Prese un involucro da sotto il sedile, lo aprì e mi sventolò davanti il contenuto. Rimasi letteralmente a bocca aperta. Erano proprio loro. Erano le vecchie cartine “ATLAS” che Giovannone mostrava a noi bambini tanti anni prima come fossero delle preziose reliquie. “Per fortuna ho ancora il mio passaporto per i sogni!”, sentenziò, “E quando la vita ti presenta il conto, i sogni sono tutto quello che ti resta per andare avanti!”.
Una folata di vento fece sbattere una persiana e sibilò via sopra il tetto sbrecciato della stalla.
“Con queste posso immaginare di andarmene via, lontano da questa vita! Sono la mia oasi di serenità, la tana che mi sono scavato per fuggire da questo mondo che non ha più un posto per me!”, disse con gli occhi umidi, “E quando me ne separerò, vorrà dire che per me sarà tempo di fare quel viaggio dove non servono guide….”.
Poi risalì in cabina, strappando un grido di dolore alle sospensioni, girò la chiave ed attese che il motore, ormai completamente consumato, cominciasse a girare tra lamenti e scricchiolii. Quindi tese dal finestrino la sua grossa manona sporca, mentre una densa nuvola di fumo pestilenziale si spandeva tutt’intorno.
In quel momento ebbi la dolorosa consapevolezza che non l’avrei più rivisto. Gli diedi la mano e lui me la strinse con quella sua stretta ancora poderosa, nonostante gli anni, ma nello stesso tempo tremante: “Ti voglio bene, ragazzo mio….”, disse guardandomi fisso negli occhi. Poi mollò la presa ed ingranò la prima scatenando un terribile rumore di ferraglia.
Attesi che il furgone uscisse barcollando dall’aia, passasse sopra il ponte del canale di irrigazione e scomparisse dietro la curva del mulino portandosi dietro il solito concerto di scoppi. Poco per volta anche gli scoppi si affievolirono e di lui rimase soltanto la fedele nube di fumaccio nero sospesa nell’aria.
Sembrava che la nube di fumo non volesse proprio saperne di dissolversi. Sembrava che se ne volesse rimanere sospesa per lasciarmi l’ultimo saluto di Giovannone, come se fosse un segnale trasmesso dai pellerossa che imitavamo nei nostri giochi di bambini.
Tornai alla mia automobile parcheggiata, in compagnia di due rondini che disegnavano spericolate acrobazie nel cielo, mentre il grande sole salutava tutti tracciando una pennellata di rosso fuoco lungo la linea dell’orizzonte.
Una volta a bordo, presi dalla tasca della portiera quella vecchia cartina sgualcita che Giovannone mi aveva regalato quel giorno di tanti anni prima, quando mi aveva incontrato sulla stradina per il paese.
L’aprii e subito una lacrima scivolò furtiva e cadde in un punto imprecisato sulla spiaggia tra Long Beach e San Diego.
Attesi che la risacca se la portasse via e girai la chiave dell’accensione.
“Anch’io ti voglio bene….”, sussurrai ripiegando la cartina, con il rumore delle onde e gli schiamazzi dei gabbiani in sottofondo.
Poi strinsi con forza il volante e accelerai in direzione della vita di sempre.
E la nube di fumo si dissolse definitivamente nell’aria.



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Racconto scritto il 20/10/2022 - 11:02
Da Paolo Guastone
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Commenti


Grazie Mirella! Accetto volentieri la "tiratina di orecchie" e ti ringrazio per aver letto e commentato il racconto. Sono contento che ti sia piaciuto.

Paolo Guastone 21/10/2022 - 12:31

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Bel racconto. Se mi è concesso un piccolo appunto "troppo lungo"

mirella narducci 21/10/2022 - 12:24

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Grazie Anna per il bellissimo commento.
Sei troppo buona!

Paolo Guastone 20/10/2022 - 14:15

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Una gran bella storia, me la son bevuta fino in fondo!! E scritta proprio bene!!

Anna Cenni 20/10/2022 - 14:08

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