Sangue agli occhi
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Era la prima volta che mettevo piede in ospedale; se ne sarebbe accorto anche un estraneo, figuriamoci se il mio comportamento poteva passare inosservato agli occhi di quella matura infermiera, arcigna e traccagnotta ma tutto sommato buona, almeno così mi pareva.
« La sua prima volta, vero? » disse con garbo, anche se il viso poteva essere quello di un guerrigliero Tupamaros. Sì, ho detto guerrigliero, maschio, uruguayano, basso e tarchiato, occhi come carbone bagnato, capelli neri e lisci quasi fossero unti: quello era l'aspetto della donna.
E poi la sicurezza con la quale si muoveva, prendeva cartelle, dava ordini; sicuramente era un'esperta del Pronto Soccorso, c'avrei scommesso la paga di un mese.
« Sì » dissi, « non mi era mai capitato di mettere piede in un ospedale, almeno come paziente ».
Mentre stavo riflettendo per rispondere alla domanda spontanea che mi ero fatto, e cioè da cosa l'avesse capito che era la mia prima volta, ecco che lei stessa mi dava la risposta:
« Si vede... ha sbagliato fila, non ha in mano la tessera sanitaria, è agitato oltre modo... »
Mi misurò la pressione arteriosa e disse:
« Però!...188 di massima e 99 di minima...altina, per un giovanotto come lei. Allora avevo ragione, è agitato? »
Mi guardava con quella sua aria di cane da guardia e tuttavia, forse perché mi aveva visto abbacchiato, sfoderò il tentativo di un sorriso rincuorante. Poi aggiunse:
« Su su, non è grave...fanno tutti così al primo infortunio. Venga con me ».
Fu così che iniziarono le pratiche burocratiche ospedaliere per avere la visita di un oculista, visto che probabilmente mi ero preso una scheggia di alluminio mentre tagliavo un profilo per telai, quelli per imposte con doppi vetri. La cosa strana era che entrambi gli occhi risultavano arrossati, in egual misura, e che durante il lavoro tenevo sempre gli occhiali antinfortunistici.
Addirittura avevo sostituito le stanghette con un elastico ben teso, espediente che rendeva impossibile lo spostamento laterale, oppure che mi cadessero sul davanti, nel momento buono.
Il signor Gianni, il capo officina della Ser-Al, serramenti in alluminio e affini, erano giorni che mi diceva:
« Ragazzo, hai due occhi che fan paura. Sono rossi come due pomodori; sembrano iniettati di sangue. Non è che ti sei preso una scheggia nel tagliare i profili? »
Io non avevo sentito niente entrarmi negli occhi; schegge no di certo perché le avrei avvertite, ma nemmeno polvere, o scintille di saldatura, o di molatura. Insomma ero lì, non sapevo che fare e non sapevo nemmeno che dire, nell'ipotesi neppure tanto remota che il medico mi formulasse la fatidica domanda: “cosa le è successo, e quando”.
Consegnai la mia tessera sanitaria, fornii le generalità e l'ora del probabile infortunio, e quella fu la prima difficoltà, perché non solo non sapevo l'ora ma nemmeno quel che mi era successo, esattamente. Apposi un paio di firme in calce ad una serie di documenti, e finalmente fui accompagnato in una saletta d'attesa.
Ero l'unico giovane in quella saletta, e il solo che portasse un braccialetto azzurro al polso con il mio nome e cognome, Mario Cremonesi, data di nascita e qualcos'altro che non capivo, forse il reparto al quale ero stato assegnato. La maggior parte dei pazienti avevano in mano documenti, cartelle e quant'altro, e poi erano molto anziani; alcuni dovevano essere pazienti ricoverati in ospedale, dal momento che erano seduti su una carrozzina ed erano in pigiama e ciabatte. Io no, avevo questo braccialetto e nient'altro. E continuavo a stuzzicarlo e girarmelo intorno al polso, mentre pensavo alle risposte che avrei dato alle probabili domande che mi aspettavo di ricevere: quando s'è fatto male, a che ora, quale giorno, e come, cosa stava facendo, aveva i dispositivi di protezione, che lavoro fa?... e via discorrendo.
E ancora, dopo le mie insicure risposte: come mai entrambi gli occhi?
È la prima volta che accade... sono entrate contemporaneamente le due schegge? Strano... Cristo Santo come sono rossi, se li è sfregati?
Chiusi gli occhi, nell'attesa, e mi parve di addormentarmi, o comunque tentai di rilassarmi pensando ad altro. Era il mio metodo, funzionava sempre. Basta, descrivere questo metodo non è facile, ma ci provo ugualmente.
Dovete sapere che io sono un appassionato di Rebus; è una fissa che mi ha trasmesso zio Carlo, l'unico della famiglia che ha studiato ed è diventato professore di matematica. Lui pubblicava rebus sulla Settimana Enigmistica, e mi diceva sempre:
« Mario, per imparare bene a risolvere i rebus bisogna capire come nascono nella testa dell'ideatore; solo così si diventa bravi ».
Io stavo ore a sentirlo. Dico stavo perché è morto, poveraccio, di un brutto male, e non aveva nemmeno sessant'anni.
Fu così che a forza di pensare ai rebus iniziai a farlo pure di notte e mi accorsi che portandomene a letto qualcuno irrisolto riuscivo a rilassarmi, non pensare ad altro ed addormentarmi come un angioletto.
Allungai le gambe, appoggiai la testa al muro, e cominciai a pensare a quel maledetto rebus che aveva resistito per più di sei mesi a tutti i miei assalti.
Nella vignetta c'era una fila, come quella che avevo fatto io allo sportello del Pronto Soccorso, e dietro all'ultimo della coda, poniamo fossi io, si stavano aggiungendo altri due che erano stati marchiati, come si dice in gergo, con la lettera A. La fila invece era stata contraddistinta dalle lettere TT. La frase risultante doveva essere: ( 7, 1, 5 )
Il tema dunque era che due persone si apprestavano ad unirsi alla fila, quindi questi A, essendo in due, erano da associare a qualcosa di plurale. Poi c'era la coda, o la fila TT...bisognava trovare un sinonimo da dare a questa coda, ma non era detto che fosse la strada giusta da seguire. A volte non è necessario trovargli il nome, ma solo l'azione che viene fatta. Quindi TT poteva pure restare così com'era. Un bel dilemma; un rebus, appunto.
Non so come mi venne in mente di partire dalla fine, e poiché i rebus procedono da sinistra a destra dovevo ragionare su A, le due persone che da destra stavano aggiungendosi alla coda TT.
Iniziai così a ragionare sull'azione che facevano costoro, questi due benedetti A che si univano alla fila: unirsi, accodarsi, aggiungersi, seguire....no, seguire non andava.
Cominciai a lavorare di mente su Accodarsi e in quel preciso momento sentii, anche se non distintamente, pronunciare il mio nome.
Aprii gli occhi e una giovane infermiera, bellina, fine e delicata, con la pelle chiara come la porcellana ed i capelli castani e mossi al pari delle onde di un mare accarezzato dalla brezza leggera di levante, mi fece cenno di entrare in una porta, esattamente la OE, all'interno della quale intravvedevo, oltre alla scrivania, alcuni macchinari ottici. Forse la lettera O stava per oculista, ed E per esterno. Ed infatti io ero un esterno. Mai stato ricoverato in ospedale.
Sul lato destro della porta, quello che dall'esterno non si poteva vedere, era seduto un giovane medico; armeggiava davanti alla tastiera di un computer e nello stesso tempo controllava alcuni grafici sul monitor.
« Prego, si accomodi su quella poltrona », disse indicandomi una speciale sedia ergonomica per visita oculistica.
Mi sedetti, e mi venne istintivo appoggiare il mento sull'apposito sostegno che mi si parava dinnanzi; avevo visto farlo in qualche film, immagino.
« Qui? », dissi.
« Sì sì, ma si rilassi...aspetti ad appoggiare il mento ».
Ah già, comincerà con tutte quelle domande, pensai. Non passò che qualche secondo ed eccolo arrivare.
« Ecco, si accomodi pure, appoggi il mento qui... », disse con una bella voce, squillante ma anche rassicurante. L'accento era vagamente straniero, con leggere inflessioni venete.
Come, nessuna domanda, mi veniva da dire. Meno male. Intanto il dottore spostava continuamente la sua macchina indagatrice ora su un occhio ed ora sull'altro, poi ritornava al primo e così via. Pareva quasi che non sapesse che pesci prendere; ed invece dimostrò di essere un buon pescatore, altro che:
« Beh, i due occhi sono messi male alla stessa maniera, arrossati davvero tanto...ma non vedo traumi, e nemmeno corpi estranei, schegge o altro. Che tipo di infortunio ha avuto? »
Lo sapevo; in ritardo, ma le domande erano arrivate. Che potevo rispondere.
« Guardi dottore, la certezza non ce l'ho, ma forse si tratta di schegge di metallo. Lavoro in una carpenteria metallica leggera e facciamo infissi in alluminio...sa, quelli con i doppi vetri incorporati nel telaio »
« Eh no caro Mario...è così che si chiama, vero? »
« Sì », risposi.
Lui continuava a guardare negli occhi con la sua macchina, ora l'uno e poi l'altro, e nel mentre diceva:
« Assolutamente no...schegge o altri corpi estranei, ma nemmeno granelli di polvere, i suoi occhi non ne hanno ».
Io non sapevo più che dire, e nemmeno pensare. Gli occhi li sentivo gonfi, pesanti, e la vista risultava annebbiata per il fatto che lacrimavano in continuazione, come un rubinetto che di tanto in tanto perde una goccia d'acqua.
A questo punto lo specialista si alzò dal suo seggiolino, spostò il marchingegno che mi teneva sollevato il mento, e mi guardò negli occhi, ma stavolta per parlarmi. Disse, con calma ma senza interrompersi, come un treno merci:
« I casi sono solo due, per quel che ne so, e la conferma ce l'ho nel fatto che il disturbo è bilaterale, in maniera pressoché perfetta: uno sforzo eccessivo nell'uso della vista, per esempio leggere molto in ambienti poco illuminati, oppure concentrasi su piccoli oggetti in continuazione, o anche stare molte ore seduto davanti ad un monitor, saldare senza l'uso della maschera, ma quest'ultima ipotesi credo sia umanamente impossibile, o sbaglio... »
Mi pareva che volesse continuare col primo punto, ma lo interruppi:
« Beh no, saldare senza maschera uno non ce la fa se non per qualche secondo. E poi io non saldo che di rado, sì e no tre volte al mese, e per pochi minuti ».
« Quindi è come pensavo, se mi dice che non legge in continuazione in ambiente poco illuminato oppure non fissa immagini per ore su un monitor, magari mal funzionante, allora rientra nel secondo caso ».
Era così...in fondo non leggevo mai e di immagini fissavo solo quelle del calendario sexy che ognuno di noi aveva davanti al proprio posto di lavoro. Ma, per dire il vero, io guardavo con insistenza la foto del mese solo i primi giorni, quando si voltava pagina; poi, nei giorni a seguire, mi veniva a noia sempre la stessa immagine e per me era come se non ci fosse.
Ingenuamente lo dissi al dottore; non si poteva mai sapere se avesse una certa importanza, o meno.
Lui fece una gran risata, divertito. Non smetteva più di ridere, anche se capiva, immagino, che il suo atteggiamento poteva risultare pure offensivo. Credo non sia riuscito a trattenersi, altrimenti avrebbe evitato. Disse, bonariamente:
« No, scusi...ahahah...certe belle ragazze fanno uscire gli occhi dalla testa anche a me, quello sì, e fanno sangue alle voglie, non agli occhi...ahahahah.... si arrossa qualcos'altro ».
Me lo meritavo, pensai. Facevo meglio a stare zitto.
Il dottore si lisciò il mento, anche se non aveva la barba, pensò ancora qualche secondo e continuò:
« No no, la seconda ipotesi è la più attendibile: lei è allergico a qualche prodotto che usate sul lavoro...parlo di prodotti chimici, non naturali ma sintetici, vapori strani, o anche vernici che circolano nell'aria. Se non le passa questa brutta irritazione con la cura che le do, dovremo fare un'analisi ambientale dell'aria che respirate, dei fumi e quant'altro. Intanto lei stia all'erta e cerchi di individuare se in alcuni momenti della giornata peggiorano le condizioni dei suoi occhi, rossore, bruciore e lacrimazione ».
Mi consegnò la ricetta di un collirio e di una pomata, mi augurò di star meglio e mi disse di tenerlo informato sull'evoluzione del mio disturbo. Poi mi congedò, e fece entrare il primo paziente in coda.
Mentre uscivo dall'ospedale ritornai con l'inconscio alla coda del rebus e, così come altre volte mi era capitato, lo risolsi proprio in un momento che non ci stavo pensando. Questioni di subconscio, diceva zio Carlo.
Insomma, per farla breve la chiave era ancora la coda e l'azione era quella di accodarsi, sicché i due che erano stati chiamati A si stavano accodando a TT che era la fila di persone. Quindi, partendo da TT che nella vignetta era a sinistra, il rebus così declamava: a TT accodansi A. Separando la frase secondo lo schema 7,1,5 risultava: Attacco d'ansia.
Bene, almeno quella, l'ansia di non riuscire a risolvere quel rebus , era sparita. Ero contento, e cominciavo a sentire che anche gli occhi stavano meglio. I miracoli dell'autostima!
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Complimenti maestro