Poi, piano piano, ti rassegni. Non lo cerchi più: impari a farne a meno. Per non dimenticarlo del tutto, per sentirne ancora la presenza, ripeti parole che lui avrebbe detto, pensi cose che lui avrebbe pensato. Spesso ridi ricordando le sue battute, rifletti riascoltando i suoi pensieri... e vai avanti. Non piangi nemmeno più.
Ti abitui alla sua assenza fatta di silenzi, alla sua metà del letto vuota, e ti senti la metà di qualcosa: una mezza mela, una mezza luna, una frase incompleta, una serie di puntini sospensivi, una pagina scritta a metà. Col passare del tempo, nella ricerca della completezza, ti capita spesso di sentirti una metà.
E vai avanti da sola: correndo, talvolta zoppicando con una gamba in meno, con un braccio spezzato. Ti senti rotta, dentro e fuori. Alla fine, ti abitui a stare da sola e fingi di sentirti intera. Ti mostri alla gente in tutta la tua falsa interezza, costruita giorno dopo giorno, per sopravvivenza.
E poi inizi a pensare che, in fondo, un bel giorno della tua metà, o di te tutta intera, non rimarrà più nulla. Un po’ per volta ti abituerai anche all’idea di dovertene andare. Sarà domani, sarà fra un anno, sarà di notte o di mattina. Chi può saperlo?
Perché è così che deve andare: oggi sei frutto della terra, domani sei stella del cielo. Alla fine, una volta accettato questo, tutto ti pare normale. O almeno accettabile: anche la morte.

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