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Fine indagine e cerimoniale (seguito Lorenza indaga)

Erano ancora in auto, il comandante vedeva la sua indagine scorrere per superficie oleosa. «E qui abbiamo provato la sua malefatta», commentò.
«Io non so se è abbastanza, dovremmo consultare un esperto, il mio avvocato», Lorenza aggiunse.
«Facciamo fare adesso al pubblico ministero, è suo il lavoro».
«Ma se tu gli dai un lavoro quasi completo, farai un figurone».
«Vediamo cosa dice l'avvocato».
L'avvocato era ancora in paese ospite in casa di Lorenza, e aspettava l'esito dell'esposto da lui studiato. Di fronte a lui fecero il resoconto di quanto rinvenuto fino allora. L'avvocato, come uomo che amava veramente la giustizia, disse: «Non sono riuscito a raffigurarmi l' immaginifica attualità, e niente indica che quel Martino sciagurato, oltre la penna, avesse i gattini in mano»,
«Quindi che facciamo, niente?», Lorenza s'incavolò.
«Questo è un labile indizio. Non credo che il magistrato per quattro gattini disporrà ulteriori indagini. Al massimo proverà con la sua dialettica, o s'affiderà, e questo è quello che accade il più delle volte, alla celere negligenza del giudice monocratico».
«Cosa facciamo?», chiese il comandante.
«Dovete legare gli orari», rispose l'avvocato e precisò: «Se era lì da solo tra le quattro e le cinque, dovete provare che prima delle quattro i gattini non erano sfracellati al suolo, questo basterà per una lesta condanna. Io adesso devo lasciarvi».


Con l'esperto assente, i tre investigatori si misero a tavolino, in un foglio schizzavano freccette verso un puntino, studiavano di risolvere la questione: incastonare in un dato spazio, in un certo tempo, la mala azione. Ma tra le impossibili supposizioni sulla vita e sulle usanze di Martino, si impegnavano a rammentare tutto il vero e il non vero che di lui si diceva, e tutto il necessario e il non necessario si librò per quella sala.
«Questo sibilo all'orecchio mi fa impazzire. Mi fa male la testa!», Martino parlava da solo e si doleva dalla remota cartoleria. Lorenza, nello stesso istante, all'improvviso fece uno scatto e fu in piedi, guardò il comandante e si disse, davvero seccata con se stessa, che tutto questo tempo aveva perso per essere stupida, e pure a loro ne ha fatto perdere per non pensare che, come lei fa jogging ogni mattina alla stessa ora, così i suoi amici, e son tanti, corrono ogni pomeriggio alla stessa ora. E pensate la fortuna: terminano prima che sia calato del tutto il sole, in quella stagione prima delle cinque.
Tutta la comitiva della corsetta serale la s' incontrava di ritorno nel largo misericordia, dove coloro che non desideravano essere visti in calzoncini e calzamaglia dai paesani, parcheggiavano la macchina, ed in quel luogo Il comandante parcheggiò l'auto. Lorenza riconobbe le auto ancora presenti dei corridori, si misero ad aspettare l'arrivo del gruppo.
Lorenza scese dall'auto per non sentire gli sbuffi dell'agente Tonino, si diresse verso l'inferriata e vi si appoggiò. Con lo sguardo verso il torrente, controllava se compariva il primo corridore. Passò i minuti controllando continuamente l'orologio: il limite di tempo per l'arrivo, secondo lei, era già stato sforato. S' innervosì: proprio adesso che li stava aspettando, hanno rallentato la corsa, e quel comandante sull'auto sempre sul punto di lasciare perdere tutto. Allungò il collo, la vista, voleva penetrare oltre la vegetazione, e dietro le spalle l'oscurità sembrava scendere celermente. S'insinuò una certa angoscia, si girò per controllare lo scampolo di luce rimanente; quando rigirò la vista, vide il primo, e il secondo, e il terzo e, poco distanti da loro, tutti gli altri attraversare il torrente e inzupparsi i piedi. Pochi secondi trascorrono e già i corridori seguono l'inferriata che limita il muro sotto di lei, percorrono la salita e raggiungono il piazzale. Lorenza ferma il primo, e così tutti gli altri che man mano arrivano. Il comandante saltò dall'auto, lo seguì l'agente, e già Lorenza poneva le sue domande per conoscere se alcuno, la precedente sera, abbia visto l'ecatombe di gatti. In anticipo si assicurò pure se, come d'abitudine, passarono da lì la stessa ora. Tutti affermarono con certezza che prima delle quattro, nel luogo indicato, gatti maciullati non ne videro. Ma uno s' insospettì della richiesta e dell'insolito agente che appuntava nel suo taccuino, disse:
«Ma perché lo chiedete?». Lorenza dovette raccontare l'accaduto, il comandante concluse:
«Dovete confermare tutto quando sarà». Cominciarono le mormorazione, si rimproverava Lorenza di averli condotti in una trappola: nessuno voleva farsi odiare da un paesano, i rapporti poi si guastano ed è seria possibilità di contagiare familiari, amici, conoscenti e vicinato. E se quello è un qualcuno utile al momento del bisogno?
«No, no, ritrattiamo», si elevò il coro.
«Evitiamo questa faccenda», fu suggerito da qualche voce. E qualcuno, intimo con il comandante, riuscì a carpire il nome dell'indiziato, circolò da bocche a orecchie, e tutti furono più tranquilli, che uno gridò per l'euforia: «Compari, non vi preoccupate: Martino è!».
«Martino chi?», fu un sussurrare.
«Martino Pepe, il cartolaio!».
«Ah sì, va bene, Lorenza, non c'è problema».
«Confermeremo, comandante».
Non poteva provocare accidenti il povero Martino, si acclarò nei successivi discorsi.


Sopra una cassa, acconcia a contenere ciliege, inchiodava cassa di ugual risma. Lorenza sigillava così per l'oscuro baratro i defunti gattini, ben riposti, accovacciati ed intimi i rimanenti otto fratellini. L'oscenità fu mondata dalla sua cortesia: «Sotto quel masso vi seppellirò, se non lo sollevo almeno a fianco. La prurigine a colui che osò, che non rimarrà, mai più, allegro e sereno colà, dove seduto, consiglio ebbe della sua infelice impresa». Lorenza giurò ai poveretti e a se stessa, che non solo otterranno per lo sciagurato una pena giudiziaria, ma pure quella morale ed eterna: il rimorso dell'anima. Lorenza credeva oltretutto nello spirito unico di tutto la natura, che pervade ogni essere in quantità diverse ma in qualità uguale, e quei piccoletti, che per poco l'ospitarono, non riuscirono a fare adempiere il fine universale, l'armonia cosmica: le influenze negative, verso tutti i viventi in questo luogo particolare del mondo, non tarderanno a pervenire, se la colpa di quel perverso essere non verrà universalmente espiata. Temeva la collera di quell'essere assoluto, e cercò nella sua enciclopedia della purificazione universale il tipo di candela, col particolare aroma, da doversi accendere durante il trasporto dell'avello sacro verso il luogo di sepoltura rivelato. Chiuse con soddisfazione un testo, The Science of Ahengyol, e dalla sua scorta smisurata di candele, ne estrasse una bianchissima e senza aroma. L' accese in salotto per proteggere, purificare, pacificare. Poi altre ancora delle stesso colore in giardino, dove temporaneamente aveva posto i micetti sigillati in cassetta, ed altre di colore marrone in onore degli animali, all'essenza di legno di cedro e sandalo,.
Né furtiva s'avviò, né ostentando la sua pietà si muoveva. Quella mattina non dedicata alla corsa, con lenta contrizione a due mani trasportava la bara di fortuna, con sopra una picozza, verso il luogo stabilito. E fu dinanzi il masso che accolse lo scellerato e, appoggiata la cassa per terra, tentò di spostarlo. L'impresa fu impossibile, era pesante e ben radicato sulla terra. Era la parte spiovente di una enorme roccia, e né a fianco né in vicinanza poté scavare, proprio non si concedeva porzione di morbido terreno per accogliere la cassetta, Lorenza si arrese: “Quel maledetto è protetto, il trono dove si siede è ben radicato fino all'inferno”, e si spostò per molti metri, lontano per almeno duecento, finché trovò terreno da poter scavare con la sua tenera corporatura. Nella buca, conforme in forma e grandezza, depose l'urna.
«Sotto la terra, varcate adesso le porte per quella regione immersa nella notte perenne. Vi seppellisco, fuor che il vostro dolore, nessun altro ricordo a noi concesse un vile per apprezzarvi. E non vedrete giorni lieti, e né lieti donerete giorni agli uomini e ai loro amabili figliuoli. Nessuno da voi scorgerà il bene della tenerezza. Non dal vostro dolce miagolio; né dalla vostra pelliccia il nostro tocco; non un bacio ai vostri musetti, a fil di fiato immersi nella profondità dei vostri immensi occhi, li avremmo amato più dei nostri. Misera oscurità adesso! Sempre le profondità della morte amano gli uomini!».
Franco




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Opera scritta il 01/05/2019 - 20:04
Da Franco Tommaso
Letta n.750 volte.
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Commenti


Bello questo racconto.

Antonio Girardi 02/05/2019 - 12:57

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