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ALL'OMBRA DEL GIGANTE

ALL’ OMBRA DEL GIGANTE



Si rimane incantati ed affascinati dallo spettacolo che l’Etna regala da millenni agli occhi dei visitatori e alla gente che vive nei paesi costruiti lungo le sue pendici, fedeli al luogo, stretti in un legame di appartenenza ancestrale indissolubile. Questo angolo di Sicilia sembra raccogliere in sé le contraddizioni di una natura capricciosa in cui i contrasti si esasperano, accendendo i colori e le luci e oscurando le ombre. Una natura rigogliosa e mediterranea affianca città e paesi in cui i palazzi, le strade, i monumenti si distinguono per il bruno tetro della pietra lavica e come una pennellata, risalta il colore giallo solare del tufo che delinea in splendide cornici le ampie finestre degli edifici barocchi.
Dal terrazzo, sovrastante il giardino, Dora ammirava il profilo del vulcano che si delineava, netto e preciso come un disegno, sullo sfondo di un cielo privo di nuvole e sul mare Ionio, colore dello zaffiro, su cui esso dominava con tutta la sua potenza e con la sua straordinaria bellezza. Guardandolo faceva paura col comignolo di fumo e le sue frequenti esplosioni rabbiose.
In questa sua villetta, di uno dei piccoli centri, incastonati come gemme sul monte, viveva Dora che aveva sempre, sin da bambina, ammirato con un misto di ansia e paura quel vulcano che dominava come un dio sulle loro vite e sembrava spesso volersi risvegliare. La donna da anni si dedicava alla madre ammalata, paralizzata a letto in uno stato di perenne semicoscienza. Giunta alla soglia dei quaranta anni viveva in solitudine senza più emozioni né entusiasmi. Gli anni erano trascorsi veloci da quanto Fabio, il suo primo amore l’aveva lasciata per la bionda Anna, raffinata figlia di un banchiere. Il senso di vuoto e di abbandono le era rimasto dentro come una spada e le aveva fatto scavare una barriera di difesa con il mondo. Il suo unico rifugio era il lavoro con le sue piante officinali, in particolare curava la lavanda che coltivava nel suo giardino e che vendeva ad una azienda che le commercializzava. Dora, malgrado si fosse chiusa in sé stessa e frequentasse poche persone, alla soglia dei quarant’anni era una creatura affascinante dal fisico morbido e il viso dolce. Erano i capelli a definire l’aspetto ribelle e orgoglioso del suo carattere: una cascata di ricci morbidi castani che le piovevano sulle spalle disordinatamente, sfuggendo spesso ai fermagli che la donna metteva per domarli. Dora aveva grande cura di quella casa bianca con le imposte verde scuro e di quel giardino, illuminato dal sole parecchie ore del giorno. Ma ormai era una casa in cui regnava la tristezza.
La voce della madre si levò nella stanza con un gemito e la portò bruscamente alla realtà dalle sue fantasticherie. Si avvicinò al letto cercando di capire cosa cercava di dirle quella povera esistenza in fin di vita. Soffriva impotente a vederla nello stato in cui la malattia l’aveva ridotta, in un peggioramento inesorabile sempre più evidente. Non la riconosceva nemmeno più in un crescendo degenerativo che la opprimeva. Non poteva far altro che starle vicino e offrirle le cure che la medicina del momento, interrogata a lungo, offriva. Quel giorno sua madre sembrava più agitata e senza un perché Dora associò quella strana inquetudine ai segnali che la natura inviava al mondo per avvisarla che qualcosa non andava bene. Il cielo era diventato nuvoloso e un vento freddo sibilava con una voce lamentosa. Anche il vulcano si lamentava con suoni cupi e profondi, un brontolio che si diffondeva tra le cavità delle rocce sotterranee e giungeva tristemente fino al mare, divenuto mosso aveva perso il suo meraviglioso colore, spegnendosi in tonalità grigie e color del fango.
Con angoscia, guardò l’antico pendolo all’ angolo del soggiorno che segnava quasi l’ora di cena. Accese la televisione e cercò di cenare, ma non aveva appetito e finì per rinunciare.
Il terremoto ebbe inizio, scatenando con la sua danza, momenti di terrore. Dora accorse verso la madre che percependo il pericolo, nel buio della sua malattia, urlava. Si udiva l’Etna ruggire la sua rabbia e Dora abbracciata alla madre aspettò che finisse. Poi tutto cessò, quel terribile momento era finalmente passato, si udivano voci di gente per strada e confusione di macchine e clacson. A parte la paura, non sembrava che ci fossero feriti, né danni alle abitazioni, tranne qualche crepa sui muri e qualche oggetto caduto. Anche l’urlo di sua madre era cessato, tuttavia per sempre. La sua tormentata vita era finita in un urlo di angoscia.
Dora la chiamò disperata: - Mamma, Mamma!! - ma non poteva più sentirla.
Quando giunse il dottore, la sentenza fu inesorabile: il suo debole cuore non ce l’aveva fatta.
I giorni che seguirono furono un susseguirsi di procedure formali che Dora dovette affrontare, ingoiando le lacrime fino al funerale, sostenuta dal conforto dei vicini di casa.
Poi le rimase il vuoto, il silenzio, il lamento di una agonia che non c’era più. Dora cerco di rimettere in ordine la casa ma si sentiva straziata, incapace di far nulla. Cosa avrebbe fatto adesso? Le rimaneva il suo lavoro e le sue piante officinali. Doveva caricare al computer gli ultimi dati del raccolto di lavanda e le foto delle composizioni dei mazzetti, inoltre cuciva deliziosi sacchetti che poi messi nei cassetti avrebbero profumato la biancheria. La sua creatività spaziava ed era molto apprezzata. Trascorreva così parecchie ore della sua solitaria giornata. Giungeva la primavera e l’aria che entrava dalla finestra era colma dei profumi che i primi fiori e le piantine poste in giardino emanavano e fu con grande sbalordimento che all’improvviso comparì un gatto color bianco e nero, mentre grandi occhi verdi la fissavano spaventato.
- E tu chi sei? – domando sorridendo al micio
- Ti sei perso? Non mi sembri denutrito, però magari uno spuntino..- disse Dora alzandosi.
Prese dal frigo il latte, versandone un poco in una ciotolina di plastica e senza avvicinarsi molto per non impaurirlo, mise il piattino a terra.
- Vieni micetto – disse Dora rialzandosi. Il gattino con un balzo si avvicinò e iniziò a bere il latte, gradendolo molto. Lo squillo del campanello la fece sobbalzare e guardando dallo spioncino vide un uomo.
- Chi siete?- chiese, ma era sicura che fosse il proprietario del gatto.
- Scusate – rispose l’uomo – sto cercando il mio gatto, abito qui vicino. Per caso l’avete visto?
Dora aprì la porta dicendo: - E’ questo il monello che cercate? -
- Già scusate, non lo trovavo più .. -
- Mi ero riproposta di chiedere in giro, è entrato dalla finestra poco fa. E’ molto bello, come si chiama? –
- Si chiama Tom e sono affezionato molto a lui. Era il gatto di mia moglie, morta due anni fa.
- Mi dispiace – fece Dora. Si presentarono così la donna seppe che si chiamava Alfredo Pardi.
Era un uomo sui quarantacinque anni, brizzolato e dal sorriso simpatico. In pochi minuti seppe che era un ingegnere e che da poco si era trasferito per un lavoro presso una azienda locale.
Dora si rese improvvisamente conto di essere vestita con indumenti da casa, era senza un filo di trucco e i capelli ricci e castani legati alla meglio sulla nuca.
Si scusò e cercò di rimediare offrendogli un caffè.
Alfredo le chiese- E tu, possiamo darci del tu vero?, di cosa ti occupi, guardando tutti quei mazzetti di lavanda, sparsi sul tavolo.
- Mi è rimasto il lavoro, dopo la morte di mia madre – e per chiarire meglio, raccontò in
breve quello che era successo.
Dora era turbata da quel colloquio inaspettato e da quella nuova conoscenza. Non era più abituata a ricevere gente e tanto meno a conversare con un uomo e poi lei in quello stato pietoso!
Eppure le era venuto spontaneo parlare con lui e ora lo guardava con la figura snella accovacciata, mentre accarezzava il suo micio che, vista l’aria familiare che si era creata, con un balzo era saltato sul divano per acciambellarsi.
Alfredo prese in braccio Tom e si congedò da Dora, scusandosi dell’invasione, ma contento della conoscenza fatta. Si ripromisero di vedersi nuovamente. E così fu nei giorni a seguire, in cui capirono rapidamente di piacersi ed entrambi riscoprivano emozioni sopite e un senso di rinascita in cui non speravano più. Dora si accorse di essere trascurata, con abiti vecchi e che doveva assolutamente perdere qualche chilo. Prese appuntamento dal parrucchiere che le sistemò la chioma ribelle con un taglio più sbarazzino, acquistò degli abiti nuovi primaverili e torno a guardarsi allo specchio.
Fu mentre aspettava che la venisse a prendere per uscire insieme, che le paure sopite tornarono a galla. Pensò a Fabio e al suo abbandono per un’altra e alla sofferenza patita. E se anche Alfredo l’avesse abbandonata?
Lui giunse con un sorriso che la fece stare subito meglio e in macchina stabilirono di andare a cenare in una trattoria a Catania. Parlavano del più e del meno, ma poi con il viso teso e rabbuiato, Alfredo iniziò a raccontargli di suo figlio Luca, ventenne e drogato, andato via dopo la morte della madre e adesso in giro per la Grecia in cerca di pace ed invece aveva solo trovato la droga.
- Non so cosa fare – disse Alfredo sconfortato
- Hai provato a parlargli?
- Il telefono è l’unico contatto che ho con lui, ma spesso non mi risponde nemmeno. Ho saputo che per ora si trova in compagnia di un gruppo di sbandati a Santorini. Ho pensato di andare da lui per cercare di convincerlo a tornare. Qui lo potrei seguire meglio, lo potrei portare in una comunità di recupero che ho già contattato. Così non può continuare – disse con angoscia
- Ti capisco Alfredo, ma cosa lo ha turbato così tanto da farlo fuggire?-
- Si sente colpevole della morte di Marzia. Sai.. si è suicidata, ingerendo un potente veleno e lui pensa che l’abbia fatto per colpa sua perché si è sentito un cattivo ragazzo, sempre a contestare tutto, a non darle retta, così lei disperata si è uccisa. In realtà era una donna fragile e infelice e io non mi accorgevo che fosse così grave, poiché ero sempre fuori per lavoro, ma le avevo raccomandato un bravo psicologo. Lei però ha fatto più in fretta.
- -Da quanto tempo non hai sue notizie? -
- Da ieri e mi sento molto inquieto-
- Mi spiace, io ti starò vicino, non preoccuparti, non sei più da solo.
Si abbracciarono, entrambi consapevoli di amarsi, ma entrambi prigionieri di angosce e paure, causate da vecchie situazioni passate, mai risolte.
Alfredo partì dopo pochi giorni, dopo aver trascorso alcuni giorni insieme in cui Dora senti di amarlo profondamente e di essere ricambiata. Le lasciò in consegna Tom, il micio che ormai la conosceva e stava volentieri nella sua casa.
Dopo la telefonata, con cui l’avvertiva di essere arrivato Dora non ebbe più sue notizie. Trascorsero giorni, settimane e mesi ma di lui nessuna traccia, malgrado le indagini delle autorità. L’unica notizia che giunse fu quella della morte del figlio. E Alfredo, si era ucciso anche lui? Era andato via disperato e chissà dove. Dora sprofondò in un baratro di sofferenza e rinnovata delusione.
All’ombra dell’Etna, gigante dai suoni cupi e profondi, in quello spicchio di provincia dal paesaggio spettacolare Dora ritrovò ancora una volta la forza di andare avanti, accarezzando Tom, unico testimone di un amore appena iniziato e subito spezzato, ma che le aveva dilaniato l’anima. Basta, si diceva rabbiosa. Sarebbe partita, avrebbe fatto un viaggio, avrebbe acquistato una macchina, si sarebbe fatta nuove amicizie, del resto non era più giovane ma nemmeno vecchia. E così progettando andava avanti con la speranza di vivere diversamente.
Giungeva la stagione estiva e ogni tanto il vento di scirocco proveniente dall’africa si faceva sentire trascinando con sé la sabbia del deserto. Dora era china sul terrazzo a togliere alcuni rami spezzati dal vento e improvvisamente lo vide davanti a sé. Era Alfredo! Non credeva ai suoi occhi e dovette appoggiarsi per non svenire. Gridò pensando di sognare, ma era proprio lui! era lì, davanti a lei! Sembrava invecchiato e più bianco di capelli, come se fossero trascorsi molti anni
- Dora perdonami!- Implorò l’uomo
- Cosa è successo? Perché sei sparito così? Ho saputo di tuo figlio e mi dispiace molto, ma non ho avuto più notizie tue!
Lui la guardò smarrito e poi disse sommessamente:
- E’ morto Dora, mio figlio è Luca è morto lo stesso giorno in cui sono arrivato e non sono riuscito nemmeno a parlare con lui e non è morto di droga, ma si è ucciso. Si è avvelenato anche lui come Marzia, come sua madre. Forse, mi diceva un medico, c’era alla base un problema genetico: anche degli antenati di Marzia si sono tolti la vita. Io vigliaccamente mi aggrappo a questa spiegazione. E’ stato sepolto lì, in quel luogo che lui amava e così disperato, per non impazzire, sono stato in ritiro presso un convento, in cerca di pace. Non volevo vedere più nessuno. Perdonami, avrei dovuto parlarti, ma non mi sentivo degno di te, non volevo farti soffrire.
Dora aveva ascoltato il racconto di Alfredo, aveva mille rimproveri da rinfacciargli, la rabbia e l’angoscia di quasi un anno ingoiate, ma pianse anche lei abbracciandolo, senza più rancori. Dovevano ricominciare tutto dall’inizio, superare insieme i loro dolori e le loro storie, tutto sommato storie come tante della cronaca umana, quasi banali., ma non era certo banale il sentimento che li univa, come non era banale lo straordinario paesaggio che li circondava.
L’Etna brontolò, emettendo fumo dal suo cratere, ma sembrava non avesse voglia di mettere in scena uno dei suoi spettacoli di lava e di eruzioni. Col caldo estivo che giungeva, con la sua aria tiepida, sembrava un gigante assopito, con tanta voglia di dormire.




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Racconto scritto il 26/02/2021 - 13:31
Da Patrizia Lo Bue
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