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GOOGLE MAPS

Me ne sto ancora qui, seduto a questo tavolo bisognoso di un’urgente pulizia, con lo sguardo perso nel monitor e la mano serrata sul mouse.
Non posso leggere, né guardarmi attorno. La vista si è ormai assuefatta alla luce tenue che si irradia dallo schermo sempre acceso.
Non che ne abbia bisogno, in fondo. Nessuno mi chiama, nessuno mi scrive e i libri hanno smesso di interessarmi da un pezzo.
Fuori, il mondo continua a macinare la sua vita. Di giorno e di notte, ma io non me ne preoccupo. Il silenzio mi circonda con la sua cortina di ombre che si allungano impietose, mi accarezza e mi sfiora con il suo alito gelido e sinistro.
Non percepisco neanche i rumori di questa paranoica città che striscia come un serpente e sbatte il suo egoismo contro le mie vetrate. Non li sento, neppure lontani e ovattati, come quando penetravano, una volta, attraverso i doppi vetri delle finestre. E nemmeno più mi giunge il canto mattutino degli uccelli né l’abbaiare notturno dei cani o il rincorrersi di voci in strada o per le scale del palazzo.
Da quanto tempo vado avanti così? Non me lo ricordo. Forse da un paio di mesi o forse più, vai a saperlo.
Quello che so è che, da allora, tutto è cambiato.
E che tutto quello di cui ho bisogno ora lo trovo dentro questo PC.
Il resto non mi interessa. E’ diventato superfluo, come i centrotavola sui tavolini dei bar. Semplice scenografia e nulla più.
Mi ricordo solo che un giorno ero andato su Internet senza una ragione particolare.
Così, solo per far passare un po’ di tempo. Per non esaurire l’ennesima giornata di festa fissando le nuvole rincorrersi nel cielo azzurro.
Prima di allora, il Web non mi aveva attratto più di tanto. Giusto il minimo indispensabile.
Del resto, la mia è una generazione cresciuta più con il Lego che con i byte. Una generazione vecchia, obsoleta, che ai giovani non interessa e che gli altri non vogliono più sentirsi raccontare.
Poi avevo scoperto Google Maps e il cervello mi era frullato come la verdura in un mixer.
Google Maps ha una cosa in comune con Dio: vede il mondo alla stessa maniera. Dal cielo. E mi svela la vita che scorre al di fuori delle mie quattro mura in un condensato di immagini che si dipanano come in una pellicola. Sprazzi di esistenza carpiti in un battito di ciglia, attimi di vita quotidiana, lontana, congelati per l’eternità e rubati con un click.
Quel giorno, prima di spegnere tutto, digitai nella barra un nome che avevo quasi dimenticato.
Il nome del minuscolo paese di campagna dove passavo le vacanze con i miei genitori.
Il classico grumo di tetti spruzzato in mezzo alle risaie, che non ci voleva molto ad attraversare e dimenticare. Poche case e poco da dirci sopra.
Da quanto tempo non passavo più da quelle parti? Decenni? Secoli, più probabilmente.
La vista dall’alto non mi rivelò nulla di più che il classico puntino scuro su di un foglio completamente verde. Presi per mano l’omino giallo e scesi in strada, proprio all’ingresso del paese e, con lo sguardo, abbracciai tutta la campagna. Intravidi cascine, campi, boschi e, più lontano, anche un alto campanile, che svettava tra le cime dei pioppi ed osservava tutti, come un antico padrone.
Girai l’omino ed eccola là, l’officina. Forse il vecchio proprietario l’aveva venduta o forse era subentrato il figlio. In fondo poteva anche essere. Difficile che, in campagna, un’officina specializzata in trattori ed attrezzi agricoli chiuda.
Feci camminare l’omino per un centinaio di metri, tra il fogliame degli alberi e le polveri dei cortili.
Muri scalcinati, umidi di mille piogge, e case secche che stavano in piedi per miracolo facevano da contorno ad una strada deserta, popolata di immobilità, che sembrava perdersi nel nulla.
Al primo incrocio girai a destra.
Ritrovai la strada dove giocavamo noi ragazzi, quella che portava fuori dal paese e si inoltrava nei campi. La nostra strada personale, trasformata in campo da calcio, pista da corsa o teatro di cruente battaglie con le fionde e unica via di fuga quando i nostri genitori restavano a secco con la pazienza.
Neanche quella sembrava cambiata molto. L’asfalto pieno di buche, ai lati le solite erbacce ingrigite, simili ai capelli ispidi di un vecchio, e.... “MA COSA CAZ.…!!!”.
Sul monitor era spuntata una cosa. Una cosa strana, che non vedevo più da un pezzo.
E che non poteva essere lì.
Mi fermai un attimo a ragionare con calma: Google Maps è un serbatoio di immagini strane, spesso anche imbarazzanti. Vedere un gatto sul ciglio della strada era una cosa assolutamente normale.
Era il gatto a non essere normale.
Con il manto rossiccio, la coda striata e quelle macchie bianche sulle zampe, quello assomigliava un po’ troppo a Isidoro, il gatto trovatello che mi avevano regalato mamma e papà quando ero bambino.
“Si, buonanotte!!”, urlai, quello poteva, forse, essere un lontano discendente di Isidoro, oppure un gatto che gli assomigliava molto. Ma non di certo lui. Dopo più di quaranta anni!
Fu un gesto meccanico, improvviso ed istintivo: spostai lo sguardo verso la parte bassa dello schermo e subito mi ritrovai il cuore al posto del pomo d’Adamo, mentre una goccia gelata di sudore mi scivolava sulla guancia e una specie di mano calda cominciava a strizzarmi i testicoli.
L’immagine era datata Giugno 1979.
Mi concentrai per un attimo per dare al cervello un’altra chance di ritrattare la visione che mi aveva appena trasmesso, ma non ci fu nulla da fare.
Che razza di scherzo era quello? Nel 1979, per quello che ne sapevo, i computer non esistevano ancora e gli inventori di Google andavano ancora all’asilo!
Doveva esserci un errore. Doveva essere tutto uno scherzo della mia immaginazione o della troppa birra che teneva a galla la mia vita di single.
Spensi con malgarbo il PC e me ne andai a letto, non prima di aver ristabilito l’umore adatto mandando giù un paio di bottiglie. Trascorsi una notte orrenda in compagnia dei fumi dell’alcool e dei ricordi di quella che ritenevo fosse una colossale allucinazione.
Mi svegliai, a mattino inoltrato, in un bagno di sudore gelido quanto una pioggia di Gennaio, e continuai dritto tra le macerie della sera prima. Mi precipitai di nuovo al PC, ma rimasi impalato davanti al monitor, come un ebete, senza fare nulla.
La mia mente si stava dibattendo, come una falena imprigionata in una lampada, per cercare una spiegazione valida a quello che avevo visto. "No, non può essere!", pensava la parte razionale del mio cervello, sovrapponendosi al timore che fosse solo un brutto sogno, "Non era vero….quelle immagini non erano vere…!".
Eppure le avevo viste, ero sicuro di averle viste.
Di questo passo la mia mente avrebbe finito per arrampicarsi su sentieri troppo tortuosi ed inutili, perciò, facendo uno sforzo enorme, comandai al cervello di muovere il braccio. Il cervello inviò l’impulso ed il braccio si mosse. Decisi che avrei teso la mano. Il cervello raccolse l’ordine inviatogli con la forza di volontà, inviò il segnale e la mano si tese. Le dita fredde e tremanti ebbero uno scatto e, come in un atto di rivolta, agguantarono l’aria. Costrinsi il cervello a farle muovere ancora e, finalmente, premettero il pulsante d’accensione.
Il PC ammiccò per un po’ e poi si accese definitivamente, mentre una sottile e indefinita sensazione di eccitazione e paura mi solleticava la coscienza, ma non abbastanza da riscuoterla da ciò che stavo facendo.
L’omino giallo ridiscese sul reticolo della mappa. La strada era sempre la stessa.
Ma il gatto non c’era più.
Rapito da un’euforia inimmaginabile presi a saltare per la stanza come un ossesso, incurante del freddo che aveva preso il posto del tepore delle coperte, del trapano feroce che avevo in testa per tutta la birra bevuta prima di coricarmi e della vescica che si stava lamentando vistosamente e che prima o poi avrebbe ceduto.
“Lo sapevo!!”, urlai come se fossi su di un palco, davanti ad un pubblico immaginario, “Lo sapevo che era solo una fottuta allucinazione!!”.
In pace con me stesso, tornai a sedermi e mandai avanti l’omino giallo. Il monitor mi restituì l’immagine di quella che, secoli prima, era stata la nostra casa delle vacanze. L’inconfondibile dimora con le persiane sbilenche e i muri intrisi di umidità, capaci ancora di incendiarsi di un rosso cupo e violento quando il sole, al tramonto, filtrava tra le robinie che la circondavano.
Fino a là nessuna sorpresa. Però, girando il cursore, vidi che nell’orto c’era una persona.
Sentii le chiappe scivolarmi fino alle caviglie e il cuore accartocciarsi dentro la cassa toracica. Un brivido gelato permeò la mia pelle e scese all'interno delle carni, giù fino ad accarezzarmi le ossa.
Il viso era oscurato, ma, con quella camicia di flanella a quadretti, che del suo colore rosso ormai serbava solo ricordi sbiaditi, ed il badile in mano, non potevo sbagliarmi.
Una lacrima solitaria solcò il viso e cadde per terra, scomparendo quasi subito, assorbita dal pavimento sudicio.
“Papà…!!”.
I ricordi di mio papà che lavorava nell’orto si perdevano nella notte dei tempi. Per quanti sforzi facessi non ne avevo di nitidi. Quelli più recenti mi parlavano di ospedali, lacrime e, infine, una chiesa piena di fiori.
Ma anche quella, ormai, era acqua passata.
Guardai la data in basso: Maggio 1980.
Provai a chiudere gli occhi, poi li riaprii, feci un bel respiro, ma la situazione non cambiò.
“Possibile…?”, pensai, inghiottendo saliva secca e dolore. No, decisamente non doveva essere possibile. Ci doveva per forza essere un limite, anche all’assurdo.
Spensi tutto e volai in bagno. Una bella doccia mi avrebbe risistemato. Sentivo la testa pesante, la bocca arida e impastata, come se avessi dormito tutta la notte con un pezzo di moquette infilato giù per la gola e avevo la vescica piena, tesa come la pelle di un tamburo.
Se non mi fossi liberato più che in fretta, probabilmente sarei esploso.
Per qualche giorno cercai di mettere più strada possibile tra me ed il PC. Non ero sicuro di voler rivivere un’esperienza come quella. Ma poi, sul finire della settimana, la curiosità di sapere quanto cervello mi fossi bevuto riebbe il sopravvento e io cedetti.
Riaprii Google Maps e, giunto davanti alla mia vecchia casa non trovai più mio papà. Al suo posto, sul monitor, comparve una strana immagine: in giardino una donna stava trafficando con i fiori. Non compresi subito se quell’immagine appartenesse ad un sogno o alla realtà, ma quando spostai un po’ l’omino e vidi, nel cortile, parcheggiata, la nostra vecchia Ford Escort 1100 grigia, il sangue si riversò nelle vene in ondate furiose e la paura mi congelò la faccia in una smorfia contorta.
Mi mancò il respiro e, per poco, non scivolai giù dalla sedia.
“Mio Dio, non può essere…. ma….quella donna ....”, gridai, inebetito da ciò che stavo osservando.
Iniziai ad ansimare: “Non può essere lei….è folle che quella sia lei!”.
E, invece, era proprio lei.
“Mamma….!”.
Il dolore che avevo represso fino a quel momento mi scosse fin nelle ossa e fuoriuscì dalle orbite in rivoli acquosi. Il sudore mi rigava la faccia e correva serpeggiando lungo la schiena. Serrai gli occhi, con il cuore che martellava come un pistone e pareva volesse volarsene via dal torace, come un uccello impazzito che sbatte le ali contro le sbarre della gabbia nel disperato tentativo di fuggire.
Il respiro correva su e giù a pompare aria ai miei polmoni ansimanti. Con cautela riaprii gli occhi e guardai in basso: Giugno 1980.
Rimasi lì, afflosciato sulla sedia, come un elefante moribondo, senza avere la forza di muovere un muscolo. Il nodo alla gola non voleva sciogliersi, mentre il gelo di un brivido lungo la spina dorsale mi ricordava che avevo addosso una buona dose di fifa oltre che di freddo.
Stavo seriamente pensando che sarei schiattato lì, davanti al monitor, quando ecco che, all’improvviso, il nodo alla gola scomparve, la stretta sul petto si allentò e l'aria, come per magia, si riempì del profumo di quei fiori e di quella terra che mamma aveva appena smosso.
Inebriato da quei profumi e pervaso da un eccitante mix di curiosità ed angoscia mi ripresi ed andai avanti a vedere.
Tante immagini irruppero dal monitor con la violenza di una sassata, mentre gocce salate tracciavano liquidi sentieri sul viso. Immagini di luoghi e volti che pensavo di non dover ritrovare mai più, stralci sbiaditi d’esistenza che tornavano a galla, come figure sgranate di un vecchio televisore in bianco e nero.
Agosto 1980: eccomi al campo sportivo, in porta, con Ale e Adolfo in difesa, Mario centrale e Fabio e Gigi in attacco, con Chicco dietro le punte e poi, Settembre 1980, seduto con Mario e Adolfo sulla sponda del canale con la canna da pesca in mano. Aprile 1981, in bicicletta con papà e ancora, Luglio 1981, davanti a casa ad improvvisare una malferma partita di tennis con papà e mamma….
Da allora non mi alzo più.
La mia mano, giorno dopo giorno, senza tregua, si aggrappa a questo mouse intriso di sudore, come un naufrago fa con un pezzo di legno marcio alla deriva, per assaporare tutte le nuove immagini che Google Maps ha in serbo per me, immagini che credevo perdute per sempre, oceani di felicità che mi fanno ritrovare quella parte di me sepolta sotto atroci strati di macerie.
Luglio 1979, vedo la piccola fabbrica di scarpe, ancora in piena attività, Giugno 1980, ecco il trattorista Berto fuori dal bar, quando il cancro era lontano anni luce, accanto a Bruno, il barista, prima che finisse a marcire all’ospizio e poi, Maggio 1982, la bottega di Ida, un buco di negozio sempre stracolmo di mercanzia varia e di gente e, ancora, Marzo 1980, mamma e papà, in primavera, nell’orto a seminare il nuovo raccolto, Ottobre 1981, io, mamma e papà che torniamo a casa con un grosso cesto di funghi chiodini….
E io mi abbandono a queste immagini, mi lascio andare alle loro rapide, come un tronco divelto da una tempesta, che finisce in balia di un torrente impetuoso. Le respiro una ad una, profondamente, fino a farmele entrare in circolo insieme al sangue, mentre rimango inchiodato al monitor, ipnotizzato, a contemplare un’estasi che sembra non aver mai fine.
Poi, ecco che mi giunge il lieve alito che accarezza le foglie di granoturco, che coglie gli odori di alghe dal fondo fangoso dei fossati, che increspa le risaie e si destreggia tra i rami delle robinie e dei sambuchi.
Allora spiego le ali e decollo.
Virando in volo catturo un soffio leggero di brezza, il palpito di un suono. Com’è più azzurro, quassù, il colore del cielo! “Sono ancora qui! Sono tornato!”, sussurro piano al mio cuore mentre plano.
Poi chiudo gli occhi. Inspiro a fondo e sento ancora il dolce profumo dell’erba rasata e del frumento maturo. E quando li riapro vedo nascere nel bel mezzo del cielo, sopra i campi, un magnifico arcobaleno, alto e magico, che mi riempie di colore come quando ero bambino.
Strano vero?
E’ un'idea assurda, lo so. Così inconcepibile che, a prima vista, la mente la rifiuta, la evita.
E io stesso ci ho messo un sacco di tempo a capire.
Ma poi ho capito.
Ho capito che la vita stava esaudendo uno dei miei più grandi desideri, solo con qualche decennio di ritardo.
Quello di riportare le lancette indietro a quando i jeans erano di quattro taglie in meno, a quando eravamo ancora tutti insieme e mi alzavo dal letto felice perché era tutto più bello, più facile e gioioso, a quando il mondo girava dalla parte giusta ed avevo ancora tutta la vita davanti e me la immaginavo tutta diversa.
Da allora ho smesso di uscire, di fare la spesa.
Ora ho Google Maps e lì dentro ci trovo tutte le risposte di cui ho bisogno.
Il telefono l’ho staccato e il cellulare è defunto da settimane.
Non vado neanche più al lavoro. Prima ho esaurito le ferie, poi ho dato le dimissioni.
Nessuno è venuto a cercarmi.
Le scorte di cibo si stanno esaurendo e sto imparando ad ingoiare la mia saliva.
Ho la gola disidratata e le labbra rinsecchite, ma il sudore continua costantemente a fuoriuscirmi dai pori e gli indumenti mi si sono incollati addosso, come una seconda pelle.
Le orecchie mi ronzano e la testa è diventata pesante come una borsa del ghiaccio.
Forse dovrei parlarne con qualcuno. Con un medico, certamente, sarebbe la decisione più saggia, oppure con uno dei tanti strizzacervelli.
Ma, per adesso, sto bene così. Mi sento quieto, felice e mi sorprendo addirittura a ridere quando mi rifugio nel mio piccolo paradiso e fuggo da questa vita incolore, da questa casa vuota e da migliaia di giornate inutili, passate spargendo resti di cibo sul pavimento e paure intrappolate in testa come palloncini sulle travi del soffitto.
Perché, in fondo, l’inferno è proprio questo.
Niente fiamme. Niente demoni e niente calderoni bollenti colmi di anime dannate.
Il vero inferno è non avere alcuna via d’uscita da un’esistenza imprigionata dalla vecchiaia dentro un tunnel fatto di obblighi e doveri, verniciato d’abitudini e mortificazioni, senza felicità né speranza per il futuro.
E’ il tempo rubato. Quello che non torna.
E’ il giardino dell’Eden visto dall’altra parte del cancello.
Ecco, finito. Sono sempre qui, davanti al PC.
Sono nel mio giardino segreto, dove il passato non si dimentica e gli scheletri non restano sottoterra, indisturbati, ma risorgono e camminano insieme a me.
Non so che giorno sia o da quanti giorni sono incollato su questa sedia.
La mia esistenza è diventata un gioco lento. Il tempo scorre, minuti, secondi, ore, giorni.
Da troppo tempo le onde del sonno hanno smesso di cullare le mie notti e i venti ingabbiati della mia coscienza non fanno che urlare.
I miei occhi sono diventati come biglie sporche. Come unica compagnia ho la faccia che vedo riflessa sullo schermo, sempre più smunta e scavata.
La mia.
La stanza è sempre la solita, il suo soffitto grava sopra di me come il coperchio di una bara chiusa.
Una sedia, un tavolo, un computer sono l'arredamento essenziale. Tutto il resto non mi riguarda.
Sul pavimento, resti remoti di immondizia sparsi giacciono come tanti caduti di una strana battaglia.
Sul muro, i ricami bluastri disegnati dal chiaro di luna che filtra dalle finestre emergono nivei, come vessilli nudi di un relitto alla deriva nel mare della notte.
Fuori, le figure sul marciapiede e le insegne dei negozi mi appaiono sempre più lontane, tremolanti come la fiammella di una candela mossa da un soffio di vento debole come un sospiro, mentre la fioca luce dei lampioni gioca a creare mutevoli fantasmi con i vecchi mobili della mia casa.
Forse dovrei avere paura. Invece no. Invece sto bene, non sento niente. Sento solo il mio respiro roco e l’odore che emana il mio corpo, che viene amplificato da questo appartamento chiuso.
E vedo, ancora, la mia vecchia casa di campagna che troneggia nel verde circondata dalle robinie. Tra le fronde, accarezzate dalla dolce brezza serale, riconosco le figure di mamma e papà che, sorridendo, si aprono in un immenso abbraccio e mi corrono incontro…


................


Dalla cronaca locale del quotidiano “Araldo Cittadino”.
Ennesimo dramma della solitudine in città.
Un uomo di 50 anni è stato trovato morto all’interno del proprio appartamento.
Il corpo è stato rinvenuto seduto al tavolo del salotto, davanti ad un computer, dagli agenti di Polizia entrati in casa con l’aiuto dei Vigili del Fuoco.
Nel caos e nella sporcizia dell’appartamento i poliziotti non hanno trovato nulla di così anomalo da far pensare ad un omicidio. Il medico legale e, soprattutto, l’autopsia daranno indicazioni maggiori.
A segnalare l’assenza dell’uomo, che viveva da solo, sono stati i vicini di casa.
Alcuni pensavano che fosse partito, altri lo avevano visto, per l’ultima volta, poco prima di Natale.
La certezza è che questo caso sia da considerare soltanto come l’ennesima tragedia della solitudine. Una storia di tristezza e dispiacere per un uomo che, negli ultimi tempi, si era sempre più chiuso in sé stesso, con la sola compagnia di un computer che, per l’appunto, è stato trovato ancora acceso.
Al momento del decesso l’uomo stava probabilmente cercando un’indicazione o una mappa sul sito “Google Maps” e lo schermo mostrava una vecchia casa di campagna, circondata da alberi, con accanto un uomo e una donna che abbracciano stretto un ragazzino....




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Racconto scritto il 02/12/2021 - 12:25
Da Paolo Guastone
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