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L'altalena

L’altalena
Dal traghetto ormai prossimo all’approdo, osservava la scia spumosa e respirava a pieni polmoni; gli odori e l’aria salata che gli erano rimasti dentro lo risvegliavano, incancellabili; il vento teso si portava via il fumo del sigaro ma non i pensieri che si accavallavano in un vortice di timori ed incertezze.
Tornava per la prima volta nella sua isola, a quella che sino ai 18 anni era stata la sua casa. La casa che aveva abbandonato senza lasciare tracce, per fuggire da colui che gli aveva strappato l’innocenza e la fiducia nel prossimo. Lontano si era costruito la sua vita, ora aveva Teresa e tre figli.
Una volta sbarcato aveva preso l’autobus di linea, ed aveva chiesto all’autista di fermare alla contrada Sprigu*. Sceso, superate le prime vecchie case con intonaci scrostati ed affiancate da qualche nuova villetta, aveva preso il sentiero che riconobbe nonostante si fosse ristretto, spesso interrotto da nuovi arbusti e si era inoltrato nella macchia. Il cielo era basso e grigio, le fronde degli eucalipti e degli olivastri scrollavano rumorose, una impalpabile pioggia aveva inumidito le foglie dei mirti e dei lentischi e l’aria che respirava gli scendeva giù, diritta nei polmoni. Il mare rumoreggiava cupo. Era giunto in prossimità dei ginepri e subito aveva scorto il più grande, nodoso, contorto, con il ventre che sfiorava il terreno, per assecondare il maestrale, piegato ma non domato. Alla sua ombra si era spesso ristorato e ai suoi rami, da bambino aveva appeso una primitiva altalena; quanti viaggi e quanti sogni ondeggiando, guardando il cielo azzurro con l’illusione di toccarlo.
E quel giorno quando suo padre lo prese in braccio facendolo scendere dall’altalena e poi non vide più il cielo ma sprofondò nel buio e poi altre volte ancora, come un agnello, senza la forza per ribellarsi.
Si guardò intorno e la scorse oltre i ginepri. Non era più una casa: sbrecciata, saccheggiata, mangiata dal mare. Varcò la soglia e vide ancora il camino e la canna che terminava nel comignolo rimasto come punto esclamativo su quelle rovine, risentì l’odore della berbeche* in cappotto che bolliva per ore, riscaldando la casa e poi ristorando i suoi ospiti. C’era ancora traccia del pavimento con piastrelle diverse, molte recuperate da lui stesso nelle discariche abusive e posate senza criterio, sui muri scritte di ogni genere, oscene e promesse d’amore e sigle di appartenenza. Appartenenza, ma ora , lui, ora a chi apparteneva ?
Entrò in quella che ricordava essere la camera da letto, scorse, miracolosamente ancora appeso al muro un calco in gesso, scheggiato e deturpato dalla salsedine, della madonna di Bonaria. Era a lei che si rivolgeva sua madre e che lui sentiva mormorare masticando preghiere e suppliche e non di rado versando lacrime. Uscì e vide un cespo di gigli bianchi che sono frequenti sulle dune sabbiose e che mai aveva visto prima lì, fuori casa. Avrebbe voluto dar loro un significato ma non lo trovò o non volle.
Stava imbrunendo, il vento si andava placando, osservò il mare che instancabile schiaffeggiava la bassa scogliera, si voltò e vide accendersi le prime luci delle case del paese, ed il faro che dal capo scagliava come saette i suoi fasci di luce. Vide le prime ombre, rabbrividì e rialzò il bavero della giacca, riaccese il sigaro e si incamminò a testa china con le mani in tasca. In pochi minuti, trasognato, rivisse la sua infanzia libera, giocosa e poi sfregiata, rapita, sfigurata
Non avrebbe ripreso il traghetto, non sarebbe tornato. Teresa avrebbe pianto, capito e apprezzato. Avrebbe saputo spiegare ai figli la sua assenza. Sarebbero cresciuti e solo allora li avrebbe riabbracciati.



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Opera scritta il 10/11/2017 - 09:48
Da Roberto Colombo
Letta n.978 volte.
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Commenti


Bel racconto di un ritorno alla casa natia, ormai diventata un rudere ingiallito dal tempo. Ben scritto e scorrevole. Giulio Soro

Giulio Soro 10/11/2017 - 12:57

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