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UN'ETÀ PER TUTTO

Maurizio entrò al Caffè del Girasole tutto trafelato. «Eccomi, Andrea», disse, appoggiando frettolosamente alla sedia la sua giacca di pelle scamosciata, che dovette raccogliere da terra ancor prima di sedersi. Con lo sguardo, Andrea gli indicò l’attaccapanni all’ingresso del locale per poi tornare a concentrarsi sul suo accendino, sbattendolo con colpi secchi tra le mani per racimolare le ultime gocce di gas. «E ecco anche i soldi della colletta. Erano venti, giusto?» chiese Maurizio, agitando due banconote da dieci euro mentre tornava al tavolo senza la giacca.


«Grazie, sì.» Rispose Andrea col suo solito tono pacato. «Senti, non ti dà fastidio se fumo qui dentro, vero?»


‘Certo che mi dà fastidio, idiota!’ pensò Maurizio fra sé e sé. Accennando una smorfia che doveva somigliare a un sorriso, rispose: «No, fai pure. Tanto comunque fumano tutti, qua dentro.» Il che era vero, se non fosse che a quell’ora, al Caffè del Girasole, c’erano solo loro due. Ad ogni modo, Andrea aveva acceso la sigaretta ancor prima che Maurizio potesse rispondere.


Che idiota.


Andrea aveva chiamato Maurizio il giorno prima proponendogli di incontrarsi al Girasole per avere da lui i soldi della colletta, abbinando all’occasione il classico caffè tra colleghi. I due, come al solito, non avevano molto da dirsi. In più quel giorno Maurizio sembrava nervoso, come se si fosse svegliato col piede sbagliato, o se avesse ricevuto una brutta notizia, o se avesse litigato di nuovo con sua moglie. Insomma, aveva la luna storta e Andrea se ne accorse quasi subito. Non che lui e Maurizio avessero un gran rapporto, anzi, però aveva intuito che qualcosa non andava. D’altronde lo conosceva da moltissimo tempo.


«Quindi quand’è il compleanno di Sara?» Fece Maurizio, non perché gli interessasse veramente, ma perché era l’unica cosa che gli venisse in mente da dire.


«Il compleanno è venerdì, ma il regalo glielo portiamo lunedì prossimo perché lei venerdì non sarà in ufficio.»


«Ho capito – Comunque, scusami se ho fatto tardi, ma Via Garibaldi è chiusa per lavori in corso e il sessantadue ha fatto un giro che non ti dico. Ci ho messo quasi mezz’o…»


«Ah, sei venuto in autobus?» Lo interruppe bruscamente Andrea. «Non ti conveniva venire a piedi? Da casa tua saranno venti minuti scarsi.»
«È che non sapevo che la strada fosse bloccata, col pullman ce ne avrei messi cinque.»


«Ah, beh,» sospirò Andrea, facendo uscire il fumo dalle narici. «Non preoccuparti. Non ho aspettato tanto. Comunque, l’altro giorno ho incontrato Mary, te la ricordi? Erano secoli che non la vedevo.»


Certo che se la ricordava, Mary. Era stata la sua cotta al liceo. Cinque anni, dico cinque anni passati a farle il filo, mai che ci avesse combinato qualcosa. Solo una volta era riuscito a convincerla ad andare al cinema con lui, facendole pure scegliere cosa vedere. Aveva deciso di aspettare la fine del film per dirle che le piaceva, e tutto quanto. L’idea del cinema l’aveva presa da un ragazzo dell’ultimo anno, uno che, a suo dire, con le ragazze ci sapeva fare. Un piano infallibile: la porti al cinema, magari a vedere uno di quei film smielati o strappalacrime, e soltanto alla fine del film le dici quanto ti piace, e tutto il resto. Funziona garantito, diceva quel tipo. Maurizio per quella sera s’era preparato un bel discorso, scrivendoselo su un quaderno e ripetendolo davanti allo specchio più volte, finché non ebbe più bisogno del copione. Aveva imparato tutto a memoria, doveva funzionare per forza. E chissà, magari avrebbe anche funzionato se all’uscita della sala non si fossero presentati entrambi i genitori di Mary che erano venuti a prenderla per portarla a casa. Fine della serata. A rovinare i piani del tutto ci pensò il padre, che dopo aver preso Mary sottobraccio lanciò un’occhiataccia a Maurizio e non gli diede neanche il tempo di salutare sua figlia.


Che idiota.


Alla fine del quinto anno Mary si era trasferita per studiare e, finita l’università, aveva subito trovato lavoro a Torino e si era fermata lì. Da quando era partita, comunque, Maurizio non aveva più avuto sue notizie, del resto come per la quasi totalità dei suoi compagni di classe. L’aveva incontrata una sola volta, quindici o vent’anni da allora, in una libreria appena fuori dal centro. Era stata lei quel giorno ad avvicinarsi per salutarlo; probabilmente lui non l’avrebbe riconosciuta nemmeno trovandosela davanti. Erano cambiate tante cose, ma lei viveva ancora a Torino. Diceva che era tornata in città per il compleanno di sua madre e che era passata in libreria per farle un regalo. Mente sfogliava velocemente le pagine dei libri che pescava distrattamente tra gli scaffali, riponendone alcuni appena dopo un’unica rapida occhiata alla copertina, parlava con Maurizio, che invece era entrato nella solita libreria più per abitudine che per necessità e sbirciava qualche titolo ogni tanto solo per non stare lì impalato a fissare lei.


Dove vivi, cosa fai, come si chiamano i tuoi figli, e via discorrendo. Le classiche domande che si chiedono a qualcuno che non si vede da un secolo. A un certo punto Mary, ripetendo mentalmente l’appello delle 08:05 che al liceo si era dovuta sorbire ogni mattina per cinque anni e che le era rimasto in mente come fosse una filastrocca, aveva iniziato ad elencare i cognomi di quasi tutti i loro compagni di classe in ordine alfabetico. Era curiosa di sapere da Maurizio che fine aveva fatto questo, cosa faceva adesso quella. A dir la verità, l’unico compagno di scuola di cui Maurizio poteva dire qualcosa era Andrea. Solo che non gli andava. Fu un caso che Mary si dimenticò di nominare il suo cognome. ‘Per fortuna’, pensò Maurizio, altrimenti avrebbe dovuto dirle che, dopo anni passati a competere come acerrimi nemici fra i banchi di scuola, lui e Andrea erano addirittura diventati colleghi, e già si immaginava la faccia che lei avrebbe fatto. No, non avrebbe proprio voluto vederla. Sarebbe scoppiata a ridere e l’avrebbe chiamato scherzo del destino, ironia della sorte o qualcosa del genere. Tipico.


Mary era uscita dalla libreria col regalo per sua madre sottobraccio: un’edizione speciale di Cime Tempestose per la cui scelta si era beccata i complimenti della commessa, che aveva impacchettato il libro meticolosamente, con carta rosso porpora e tanto di fiocco dorato. Se avesse saputo che Mary lo aveva scelto esclusivamente per il quadretto di donna stilizzato raffigurato in copertina, probabilmente non si sarebbe impegnata così tanto. Maurizio, come al solito, era uscito di lì senza niente. Però quel giorno era stato contento di essere passato in libreria.


«Ah Mary! E come sta? Che fa?» Fece di colpo Maurizio, che con la testa stava ancora sul sessantadue.


«Beh, pare che sia tornata in città perché sua madre sta male. Non ho voluto chiedere, ma da come parlava penso sia grave. Sai, a una certa età… Comunque, dice che con l’occasione ha preso contatti con un’agenzia immobiliare. È andata in pensione da poco e ora vorrebbe trasferirsi qui di nuovo, così è più vicina ai suoi…e anche al mare.»


«Ho capito», disse Maurizio. «Torna in patria, allora.»


«Già.»


Ci fu una lunga pausa. Andrea continuava a sputare nuvole di fumo, che puntualmente finivano addosso al collega, che iniziava a sbuffare anche lui, ma dal nervoso. Si sarebbe detto che Andrea lo facesse apposta, a fumare in quel modo. Senza contare che il vento forte che entrava dalla finestra, aperta a metà per arieggiare il locale, rendeva impossibile calcolare la traiettoria del fumo. Maurizio provava a evitarlo ogni volta portando il busto prima indietro, poi a sinistra, poi di nuovo avanti, ma nonostante le acrobazie si ritrovava a respirare quell’insopportabile odore di tabacco bruciato che odiava da quando aveva chiuso con le sigarette ormai da trent’anni. Succedeva spesso in realtà, da quando aveva iniziato a lavorare col suo vecchio compagno di banco. Certe volte Andrea fumava anche in ufficio, quando il capo non c’era, con la scusa che altrimenti avrebbe dovuto farsi quattro rampe di scale per scendere a fumare e altre quattro per risalire.


Che idiota.


«Cosa vi porto?» esordì la cameriera con un sorriso e una voce così squillante che quasi fece sussultare entrambi.


«Per me un caffè, grazie.»


«Anche per me. Si può avere in vetro, signorina?» chiese Andrea. La cameriera annuì e fece per tornare al bancone. «Ah, scusi, può chiudere la finestra? Fa un po’ freddo qui dentro.»

«Certo, ma devo chiederle di spegnere la sigaretta, signore.»


‘Ti sei già guadagnata la mancia’, pensò Maurizio tra sé e sé. Andrea fece l’ultimo tiro e la spense, poi la ragazza chiuse la finestra. Maurizio non poté trattenersi dal tirare un sospiro di sollievo, ma finì per tossire: anche l’ultima nuvola di fumo gli era finita dritta in faccia.


Tra i due ci fu di nuovo silenzio. Andrea iniziò a guardarsi attorno aspettando il caffè. Maurizio, un po’ perché non riusciva a pensare ad altro da dire e un po’ perché non riusciva a tenersi dentro quello che gli era capitato poco prima, toccò il braccio di Andrea per richiamare la sua attenzione e quasi d’istinto, tutto d’un fiato, gli chiese: «Senti un po’, mi trovi vecchio?»


La domanda arrivò così strana e improvvisa che Andrea non poté fare altro che mettersi a ridere. «Che?»


«Dico, secondo te sono invecchiato?»


«Rispetto a quando? Ma che diavolo di domande fai?»


«Rispetto a ieri, penso. O a qualche giorno fa, che ne so. Insomma?»


«Tu sei tutto matto, Maurì» rispose Andrea ridacchiando. «Sì, sei invecchiato terribilmente rispetto a ieri. Domani ti ci vorrà il bastone. Dì un po’, come ti vengono in mente certe cose?!»


«Ti spiego. Oggi sono venuto col sessantadue, no?»


Arrivò la ragazza e portò i caffè, interrompendo Maurizio e il suo discorso con la sua voce tanto squillante quanto cortese. Fu soltanto in quel momento, quando fu costretto a fermarsi, che Maurizio si rese conto di quello che stava facendo. Si pentì subito di aver iniziato a parlare di quella roba, e fu preso dalla tentazione di far finta di non aver detto nulla. D’altra parte, però, si sentiva già sollevato per aver vomitato questo pensiero che gli stava letteralmente facendo venire il mal di testa. Probabilmente, Andrea era la persona più sbagliata con cui parlare di certe cose, però almeno lo conosceva da molto e magari avrebbe potuto dargli un parere sensato. A conti fatti, poi, Maurizio non sarebbe riuscito a trattenere a lungo questo peso sullo stomaco; fosse arrivato al Girasole prima di Andrea, probabilmente avrebbe finito per sfogarsi con la cameriera. Ad ogni modo, ormai era troppo tardi per ripensarci, Andrea lo stava fissando. Per cui Maurizio ricominciò:


«Oggi sono venuto col sessantadue, no?»


«Eh. Ho capito.»


«Per farla breve, quando sono salito sull’autobus c’era un ragazzo, penso che stesse tornando da scuola, non lo so. O forse aveva marinato. Comunque, mi ha fatto sedere.»


«Ok, e allora?»


«Dico, mi ha fatto sedere. Sono salito e quando mi ha visto mi ha fatto un sorrisino complice, si è alzato e mi ha indicato il posto. Roba da pazzi.»

«Perché? Anzi, è stato gentile. Magari ti avrà visto stanco, che ne so.»


«Stanco? Ma se ero appena uscito di casa. Oggi che l’ufficio è chiuso, l’unica cosa ho fatto è stata passare in libreria prima di venire qui. Quello non mi ha visto stanco, mi ha visto vecchio. Te lo dico io.»


«Ti piacerebbe essere vecchio, eh. Mica ti sarai stufato di lavorare? Ne abbiamo ancora per un paio d’anni io e te, caro mio». Andrea tirò fuori un’altra sigaretta dal pacchetto e se la mise sull’orecchio mentre parlava. Lo faceva sempre, anche in ufficio. Significava che se la sarebbe fumata di lì a poco.


Che idiota.


«Lo so, lo so. E comunque il lavoro non c’entra niente. È che è la prima volta in vita mia che qualcuno si alza per farmi spazio sull’autobus. È una cosa che si fa cogli zoppi e coi vecchi, no? E io mica sono zoppo.»


Maurizio si fermò, forse aspettando una conferma, una reazione qualunque da Andrea, che però non arrivava. D’altra parte Andrea non era solito discutere di tali argomenti, tantomeno se a tirarli fuori era Maurizio. Perciò si limitava ad ascoltare, cauto, per vedere dove il suo collega volesse arrivare. La verità è che non lo sapeva nemmeno lui. Resosi conto che Andrea non si sarebbe pronunciato, Maurizio continuò:


«Il punto è che mica esiste un momento preciso nella vita in cui si diventa vecchi. Non è che un giorno a caso ti arriva una lettera che ti dice ‘Da oggi, tu, Mario Rossi, sei vecchio’, sbaglio? Te ne devi accorgere da solo, e comunque anche se mi arrivasse una lettera così io mica ci crederei. Quando avevo dieci, undici anni e invece di stare chiuso in camera a fare i compiti me ne andavo in giardino a giocare a pallone, mia madre mi ripeteva sempre ‘Maurì, smettila di comportarti così, adesso sei un uomo’. Ma quale uomo, avrei voluto dirle ogni volta! Non ho neanche la barba, mi dici che razza di uomo non ha la barba, eh? C’è un’età per tutto, santo cielo. E mia moglie, invece? Ogni tanto, quando discutiamo per le solite sciocchezze, mi dice ‘Maurì, certe volte sei proprio un bambino’. Cristo, quanto mi fa arrabbiare. Ma che cavolo significa certe volte? O uno è un bambino, o non lo è. E io di sicuro non sono un bambino. È da mezzo secolo che non gioco più a pallone, per dire. A dieci anni sì che ero un bambino, e invece mia madre mi diceva che ero un adulto. E adesso che ho più di sessant’anni ti sembro un bambino, eh? A sessant’anni?»


Andrea non sapeva cosa rispondere. D’istinto scosse la testa e portò in su il labbro inferiore, ritirando leggermente il collo e scrollando le spalle, come per assecondare Maurizio. In realtà, quello sguardo diceva chiaro e tondo: non ho idea di cosa tu stia parlando. In tanti anni non gli era mai capitato di vedere Maurizio tanto fuori di sé. Stava andando in panne, era uno spettacolo piuttosto strano a vedersi. Andrea non sapeva se riderci su, lasciarlo sfogare o semplicemente dirgli di farla finita con quella storia. In un altro momento gli avrebbe sicuramente detto qualcosa come ‘chiudi il becco, Maurì’, schietto com’era di solito. Però quella volta non se la sentiva nemmeno lui d’interrompere il collega che pareva veramente in delirio.


«Ecco. Insomma, per mia madre ero un uomo già a dieci anni, per mia moglie sono ancora un bambino, e oggi quello sull’autobus mi viene a dire che sono vecchio. Ma dico, sono tutti degli idioti?»


«Ma non ti ha detto che sei v…»


«E invece sì che me l’ha detto! Non a parole, ma a gesti. Quando mi ha indicato il sedile. Pensaci, è un po’ come se quel tizio fosse il postino che mi ha consegnato la lettera che attesta che sono vecchio. ‘Tu, Maurizio Farini, da oggi sei ufficialmente vecchio. Firmato, il ragazzo dell’autobus’. Ma ti pare normale che uno deve sentirsi dire da uno scolaro che è vecchio? Io non […]»


Andrea non ne poteva già più di starsene lì a sentire le lamentele del collega, e si vedeva. Aveva iniziato a giocherellare con la sigaretta che teneva dietro l’orecchio, ora portandosela tra le dita, ora tirando il filtro su e giù con l’indice. Fremeva dalla voglia di uscire per fumarsela, e soprattutto per tirarsi fuori da quella situazione tragicomica. Però Maurizio non gli dava tregua, dandosi da fare per trovare esempi che servissero a dimostrare che lui, assolutamente, non era vecchio e che il poppante dell’autobus avesse torto, proprio come sua moglie e sua madre. Andrea aveva smesso di seguirlo da un pezzo, e a dirla tutta non lo stava più nemmeno guardando.


«[…] gliene direi quattro, altroché. Tu che avresti fatto?... Eh?»


Maurizio sbatté per due volte la punta delle dita sulla superficie vetrata del tavolo con una violenza tale che fece sobbalzare Andrea.


«Sì, sì. Infatti...»


«Ma mi stai ascoltando?»


Che Andrea non lo stesse facendo era palese. Maurizio diventò improvvisamente così rosso in faccia che sembrava stesse per esplodere. Non avrebbe mai dovuto sfogarsi con Andrea, anzi, non avrebbe dovuto proprio incontrarlo al Girasole. Avrebbe potuto semplicemente portare i soldi in ufficio e lasciarglieli sulla scrivania insieme a un biglietto col suo nome quando era in pausa pranzo. In questo modo non avrebbe dovuto nemmeno prendere l’autobus, evitando di incontrare quel ragazzino. E invece stava lì, al Girasole, e adesso avrebbe soltanto voluto alzarsi in piedi e urlare: ‘sei un idiota, Andrea. Un perfetto idiota!’ facendogli saltare quella dannata sigaretta dall’orecchio. Cercando di controllarsi smise di parlare e, di scatto, portò in alto la mano destra e richiamò la cameriera, senza però cercarla con lo sguardo.


A questo gesto Andrea lo guardò sbigottito, ma fu abbastanza sveglio da capire la situazione e cercò di riprendersi, anche se provava un po’ di vergogna per essere stato colto mentre era distratto. Così provò a scagionarsi: «Beh, se ti può consolare, Maurì, se sei vecchio tu, sono vecchio anche io. Ti ricordo che siamo coetanei.»


Non aveva capito niente.


Che idiota.


«Desiderate qualcos’altro?» disse la ragazza, che arrivò in un baleno, anticipata di poco dalla sua solita voce squillante. «No, grazie. Vorremmo pagare.» Andrea sollevò il fianco destro per raggiungere il portafogli, ma Maurizio lo fermò con la mano: «pago io.»


«Fanno due euro e venti, signore.»


Maurizio prese delle monete che aveva sparse in tasca e fece per dargliele, poi si ricordò che era grazie a lei che Andrea aveva dovuto spegnere la sigaretta, e che aveva deciso di lasciarle la mancia per questo. Quindi prese il portafogli e tirò fuori una banconota da cinque euro. «Tenga il resto», aggiunse. La cameriera ringraziò e si allontanò con le tazzine con un sorriso ancora più pronunciato di quello che aveva quando le aveva portate al tavolo.


«Va bene, i soldi per il regalo te li ho dati. Io torno a casa» disse Maurizio, riponendo velocemente il portafogli in una delle tasche anteriori dei pantaloni.


A quella risposta secca, Andrea si sentì terribilmente in colpa e cercò nuovamente di rimediare. «Ti serve uno strappo?» gli chiese, con una voce così gentile che quasi non sembrava la sua. Maurizio avrebbe preferito andarsene in ambulanza piuttosto che con lui. «No grazie, vado a piedi.»


«Ah, niente autobus?» Ridacchiò Andrea con l’intento di sdrammatizzare, dando una pacca amichevole al collega che lo fece infuriare ancora di più.


Niente autobus.


Maurizio si voltò e uscì dal locale ancora rosso come il fuoco in viso. Quel giorno si era fatto, almeno mentalmente, tre nemici: il ragazzo dell’autobus, Andrea e sé stesso. Camminando per strada si mise a parlare da solo. Mentre stava rientrando, un passante di Via Garibaldi che gli stava poco dietro col suo cagnolino giurò di averlo sentito borbottare queste parole:


«Senti un po’ Maurì, quando il ragazzino ti ha lasciato il posto sull’autobus, tu che hai fatto?»


«Io… mi sono seduto».


Che idiota.




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Racconto scritto il 31/03/2020 - 16:32
Da George Pinsons
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