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Mi chiamo Antioco Corraine

Mi chiamo Antioco Corraine


Mio padre Luigi Corraine
Mi volle pastore di pecore dopo aver finito la scuola d’obbligo perché questo sarebbe stato il mio futuro anche se avrei voluto continuare. Avevamo duecentoventi pecore. Le mie giornate erano lunghe nella “Tanca”, controllando le pecore e ogni giorno tenevo il mio diario. Di fianco c’era un altro pastore a distanza di duecento metri. Ci sentivamo a voce e fischi. Un giorno di primavera, vidi che al posto suo c’era una ragazza, La salutai e chiesi come mai fosse lì. Purtroppo, con una lacrima negli occhi mi disse, “Mio padre Mundicu è morto e non c’è nessuno che badi alle pecore”. Circa duecento. Lei ha sempre abitato vicino al nostro podere, aveva vent’anni, ma io non la conoscevo, il suo carattere mi sembrava abbastanza tranquillo. Poi mi ricordai guardando bene che la vedevo solo la domenica mattina alla messa ma non le diedi mai importanza. (anche perché guardare troppo una donna da noi era tabù). Alta un soldo di cacio ma un viso greco, capelli corvini, molto aggraziata.
Le giornate incominciavano a essere calde e assolate, le dissi che io col mio gregge dovevo scendere giù nella valle, dove l’erba cresceva verde, rigogliosa. Lei mi disse, “Posso venire con te?”. Ci pensai un pochino poi dissi sì ma dentro di me capivo che era un lavoro duro non adatto a una giovane donna. Ma lei con insistenza disse, “Io sono forte, non ho paura della morte, Io, comunque, non ci dormivo la notte”. Partimmo all’alba, le pecore distinte in due gruppi con i cani attorno che davano una mano controllando il gregge. Arrivammo stremati in campidano, ci fermammo in una radura vicino a dove da lontano si vedeva il mare e dall’altra un poderoso nuraghe. Le giornate passavano tranquille ma il mio cuore faceva scintille. Incominciavo ad innamorarmi. La mattina la mungitura e poi sul tardi sarebbero venuti i proprietari di caseifici per acquistare il latte. Io, nel frattempo, costruii una “pinnetta” fatta di canne con la base di pietre e fango per proteggerci la notte dall’umidità. Facevamo a turno, uno dormiva l’altro vegliava, si sentiva solo il belare e il suono dei campanacci unito all’abbaiare dei cani. Mentre il canneto, attorno piegato da un refolo di un leggero venticello breve come una preghiera aspettavamo la sera. Notti calme, tranquille con i cani sempre lì attenti. I nostri discorsi incominciavano ad essere un po’ più intimi. Un po’ scherzoso oramai amici. Io iniziavo vederla come donna mi piaceva purché di compagnia, spesso raccontava della sua famiglia e dei suoi sogni. Lei era timida e riservata, sarda di nome e di fatto, perché ogni tanto si allontanava con la scusa di guardare il gregge. Un giorno decisi di farmi avanti gli dissi che mi piaceva accarezzandola il viso. Lei non rispondeva ma sfoggiava un sorriso sardonico, io capivo che era ancora in lutto per la morte del padre di cui aveva tanto rispetto. Ogni giorno mi sembrava sempre più bella mentre si lavava nel fiume vicino profumava di felce e gelsomino. Io passavo il tempo seduto col coltellino in mano intagliavo il mio bastone, lei mi disse che ero bravo, io risposi grazie, sai, sin da piccolo mi aveva insegnato mio nonno “Paddore” pastore pure lui era bravo a modellare strumenti da tavolo che mia nonna ne andava fiera. Se vuoi ne farò uno anche per te? Lei disse di sì tutta contenuta, Così fu né preparai uno molto bello che apprezzò molto. Molte volte le piccole cose sono più grandi. E lei contemporaneamente mi regalava un fazzoletto ricamato che aveva preparato nelle lunghe giornate col mio e il suo nome inciso. Avevo capito finalmente che anche lei ci teneva. La notte dormivamo vicini quasi abbracciati. Finita l’estate tornammo in paese i due mesi erano volati velocemente. Mettemmo le pecore ognuno nella sua “tanca” ci salutammo con un’occhiata di simpatia reciproca. Facevo il formaggio poi lo vendevo per racimolare un po’ di soldi, pensando al futuro con lei, ormai ero deciso. Poi una domenica mattina dopo la messa gli dissi vado a parlare con tua Madre. E gli chiedo la tua mano.


Così fu: mi feci coraggio.
Toc Toc bussai alla porta. Mi aprii e mi saluta come sé già sapesse cosa volevo. Vede signora Bora, io sono innamorato di "Anania" la voglio sposare. Lei come se sapesse già tutto mi dice… Caro "Antioco" se lei ti vuole sono d'accordo pure io sei un bravo ragazzo lavoratore, conosco la tua famiglia … Io non avrò problemi, ti farò sapere. Passò un'altra settimana, finalmente venne da me uno del paese che si chiamava "Su poborincu". (dicendo portator non porta pena). Mi porto la missiva dicendo che lei mi avrebbe accettato. Facciamo la festa di fidanzamento balli sardi con canti "Batturinasa". Vennero anche tanti pastori del Sopramonte amici di famiglia. Felici tutti contenti di nascosto da tutti il primo bacio casto avevo tagliato con lei finalmente il nastro. Poi passeggiate mano nella mano sempre sotto controllo delle Zie. Incominciava una nuova vita, io ero innamorato. Nel frattempo, pensavo alla costruzione della nostra casetta. Mio padre mi donava un terreno in campagna, edificabile è da lì a presto ci sarebbero state altre abitazioni vicine. Mano mano iniziavo la costruzione "Anania" era contenta, preparava il corredo. Metteva tutto in una vecchia cassapanca intagliata ereditata dalla nonna. Passarono due anni di lavoro grandi sacrifici, finalmente verso gennaio la casetta era pronta. Un cucinino due camere da letto un ripostiglio una dispensa scavata nel muro. Fuori di fianco un piccolo locale per il caseificio con un deposito per i formaggi. Ci sposammo il quattro luglio di una domenica mattina nella basilica della Madonna di Saccargia. Cento invitati, amici, parenti tutti li contenti. Non mancavano gli arrosti il vino buono dolci e frutta. Canti, balli ai suoni di fisarmonica e delle "launeddas". La notte finalmente da soli entrambi eravamo molto felici. La prima notte. Ci spogliamo senza neanche guardarci lei molto timida, del resto, era per entrambi la prima vola… Ma io non vedo l'ora di provare i piaceri della carne. Lei aveva I seni non tanto grandi ma ben formati, un fisico perfetto, carnagione rosea finalmente era la mia sposa e mi piaceva ogni sua posa. Mi disse che aveva paura della prima volta, io la guardo con tenerezza. E divento mia offrendosi la sua purezza con tanta dolcezza. Poi subito resto in attesa di un figlio, era ancora più bella con quel pancione. Continuavo a fare il mio mestiere di pastore oramai con quattrocento pecore. Decidemmo se fosse stato maschio di chiamarlo "Ballicu" il nome del Padre. Se invece era femmina Antonica, il nome di mia madre.
Come la nostra Santa Antonia Mesina.
Questa storia sarda di pura fantasia.




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Racconto scritto il 08/06/2023 - 17:34
Da Francesco Cau
Letta n.307 volte.
Voto:
su 2 votanti


Commenti


Grazie Francesco Scolaro

Zio Frank Storie del gufo 13/06/2023 - 09:13

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Una racconto di pura fantasia ma con i tratti di una storia reale, una storia genuina e bella che fa rimpiangere i tempi andati. Bravo Frank e complimenti, ciao

Francesco Scolaro 10/06/2023 - 19:06

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Ti ringrazio Maria Luisa.

Zio Frank Storie del gufo 09/06/2023 - 15:48

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Un bellissimo racconto ben scritto e scorrevole.

Maria Luisa Bandiera 09/06/2023 - 07:30

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Grazie carissima Anna.

Zio Frank Storie del gufo 08/06/2023 - 20:29

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Zio è uno splendore, bello leggere usi e costumi di gente lontana. E poi bella la storia. Bravissimo!!

Anna Cenni 08/06/2023 - 19:54

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