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Il Custode del Foro

Era il difensore della tradizione, l’ultimo baluardo di un codice non scritto che si respirava solo in certi luoghi. Non parlo di Wimbledon, né del Foro Italico, ma del Dopolavoro ferroviario, un circolo dal nome modesto e dalla storia fatta più di abitudini che di tornei. Ci andavamo con gli amici a giocare a tennis, più per stare insieme che per emulare McEnroe o Borg. Non era Villa Lloyd, non era lo Junior Club, era soltanto un campo di cemento in mezzo a un prato, incastonato tra i binari e una siepe troppo alta per essere vera. Ma per noi era tutto.
All’inizio non c’era nemmeno un custode. Le chiavi si ritiravano in una stanzetta che odorava di cuoio e disinfettante, si firmava un foglio a quadretti, si pagava in contanti e si portavano via. Il primo che prenotava alle 7:30 del mattino diventava, di fatto, il “guardiano” del campo per tutta la giornata. Spesso anticipavamo l’ingresso di qualche minuto, magari di mezz’ora, giocavamo all’alba con la freschezza addosso e la rugiada che si asciugava sotto i nostri piedi. Nessuno protestava: eravamo noi, sempre noi, e ci conoscevamo tutti.
Poi vennero i cambiamenti. Lentamente, quasi senza che ce ne accorgessimo, il prato intorno divenne un parcheggio sterrato, comparvero altri campi, un prefabbricato con due spogliatoi separati da un corridoio umido e odoroso di muffa. E infine, il campo in terra rossa. Una meraviglia, una sorpresa, quasi un lusso. Il fiore all’occhiello del circolo dopolavoristico, come lo definiva con orgoglio il presidente in carica, che parlava come se gestisse Roland Garros.
E con quel campo arrivò lui: il custode del Foro, come lo avevamo soprannominato. Un uomo dall’aspetto austero, sulla cinquantina, sempre in camicia chiara infilata nei pantaloni e con un fischietto appeso al collo, anche se non aveva mai arbitrato nulla. Il suo compito era chiaro: preservare la terra rossa come un tempio, come una reliquia. Nessuno doveva calpestarla senza le scarpe giuste. Niente suole scolpite, niente scarpe da jogging, niente improvvisazioni.
Ma la vera rivoluzione erano le regole di abbigliamento. In quel campo, e solo in quello, non si poteva entrare se non "vestiti da tennis". Il custode aveva i suoi criteri: magliette sì, ma non canottiere. Pantaloncini sì, ma non quelli fosforescenti da calcetto. A torso nudo? Anatema. Costume da bagno? Rifiutato. Una volta fermò anche uno dei ragazzi più forti del circolo, un certo Marco, solo perché indossava una maglia con una stampa di Jimi Hendrix. "Qui non siamo a un concerto", disse, mentre restava impassibile davanti alla racchetta da 300 euro e al rovescio bimane impeccabile.
Il vecchio campo in cemento, intanto, cadeva a pezzi. Le crepe correvano lungo la linea di fondo come radici di un albero invisibile. Ma ci tornavamo ancora, un po' per nostalgia, un po' perché lì si poteva giocare come volevamo. Pantaloni corti da basket, t-shirt con le maniche tagliate, persino con le Converse. Nessuno ci diceva nulla.
Eppure, con gli anni, anche noi avevamo imparato ad apprezzare quel custode. Burbero, sì. Pignolo, anche troppo. Ma c’era qualcosa di nobile nel suo zelo. Custodiva non solo un campo, ma un’idea. Un’idea di ordine, di rispetto per il gioco e per il luogo.
Oggi lo immagino ancora lì, anche se il tempo è passato e forse il Dopolavoro ferroviario non esiste più come una volta. Lo immagino che ferma i giocatori ATP alla porta, scuotendo il capo davanti a una canottiera firmata Nike o a un completo fluo. "Non si entra così", dice, mentre dietro di lui un Frecciarossa sfreccia a duecento all’ora e fa tremare le reti.
Nel suo mondo, il treno può anche passare, il decoro resta. Sempre.



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Racconto scritto il 17/06/2025 - 10:27
Da Glauco Ballantini
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