Un attimo. Uno sguardo. Una frase buttata lì, come un fiammifero acceso nel buio. Il giorno dopo, incapace di tenermelo dentro, le scrivo: “Sei bellissima.”
Non sapevo allora che quella frase sarebbe stata la porta di un amore che mi avrebbe travolto.
Eravamo giovani. Ma veri, belli, innocenti nel sentire.
Ci vedevamo ogni giorno, sempre sulla stessa panchina. Seduti lì, parlavamo per ore, dimenticandoci del tempo, dei doveri, del mondo. C’era quella magia che non ha bisogno di spiegazioni: due anime che si riconoscono senza sapere come.
Per giorni ho atteso il momento giusto, cercando il coraggio. Poi, un giorno qualunque, l’ho baciata. Ed è stato tutto.
Il primo anno è stato puro. Un amore senza sovrastrutture, limpido, vero.
Ogni parola detta sembrava importante. Ogni silenzio, denso.
Litigavamo, certo, ma erano sciocchezze da ragazzi. Roba che si spegneva con un sorriso, una carezza.
Col tempo, però, qualcosa ha iniziato a cambiare.
Non l’amore, quello no. Ma la leggerezza.
La routine si è fatta strada. Io cercavo stabilità, lei la libertà. Avevamo desideri diversi, ritmi diversi, modi diversi di crescere.
Lei voleva vivere, sbagliare, ballare ancora dentro la sua adolescenza. Io ero già qualche passo più avanti.
Poi è arrivato l’altro Capodanno.
Io volevo passarlo in famiglia, lei con gli amici.
Fino all’ultimo ha sperato che l’avrei raggiunta.
Non l’ho fatto.
Ci siamo rivisti poco dopo.
E lì, tutto è esploso.
Le incomprensioni, i silenzi, i rancori accumulati—tutti insieme, come schegge.
Abbiamo urlato, con rabbia e dolore. Parole pesanti, di quelle che non tornano più indietro. Lei piangeva, io cercavo di farmi capire, ma nessuno ascoltava davvero. Solo la voce spezzata del cuore che non sapeva più come parlare.
La riportai a casa.
Scese dall’auto e sussurrò un “ciao”.
Un suono flebile, quasi impercettibile. Ma io lo capii subito: non era un saluto, era una richiesta. Un “non farmi andare”, un “dimmi qualcosa, trattienimi”.
E invece…
l’orgoglio prevalse.
Chiusi la portiera. Me ne andai.
Senza voltarmi.
Ogni tanto, quel “ciao” torna.
Come un’eco.
Lo sento dentro. Risuona in qualche punto nascosto, dove non arrivano le parole, solo il rimorso.
Poi il silenzio.
Settimane.
Solo più tardi ho saputo, tramite amiche, quanto avesse sofferto.
E quando ho provato a tornare… era troppo tardi.
Il dolore l’aveva cambiata. L’aveva convinta che cancellarmi fosse l’unico modo per sopravvivere.
E io? Io ho lasciato fare.
Ci siamo detti addio due anni esatti dopo il nostro primo incontro, in un altro inverno, con un altro cielo.
Oggi sono passati quattro anni.
L’ho superata, sì.
Ma una piccolissima parte di me l’ho persa,
e so esattamente dove si trova:
sta ancora lì, seduta su quella panchina dove tutto è cominciato.
Dove eravamo più veri, più giovani, più belli.
Dove ci siamo amati senza sapere quanto avrebbe fatto male smettere.
Da allora ho baciato altre labbra.
Ho amato altre notti.
Ma ogni volta, qualcosa mancava.
Nessun volto ha avuto lo stesso peso.
Nessuna risata, lo stesso suono.
E forse è giusto così.
Perché ci sono amori che non vanno dimenticati.
Ci sono panchine che restano occupate per sempre.
Anche quando ci si alza.

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