Capitolo 1) - L'Ombra della Malattia
Fu un giorno come tanti. Nessun segnale chiaro, nessun presagio evidente. Solo piccoli cambiamenti, come ombre che si allungano quando il sole cala. Tu cominciasti a dimenticare le cose, a essere più stanco del solito, a cercare le parole come se fossero oggetti smarriti. Io cercavo spiegazioni semplici: lo stress, l’età, il clima primaverile più caldo. Non volevo pensare che potesse essere qualcosa di più. Avevi patologie cardiache ed eri in cura per questo. Nulla lasciava presagire che si trattasse di qualcosa di molto più grave. Era un po' di tempo che eri "smemoratello: e così andammo dal neurologo che accennò ad una demenza lieve. Ma la verità venne fuori con la scintigrafia ed ulteriori esami.
Scoprimmo che si trattava di una neoplasia polmonare che aveva già prodotto metastasi in ogni parte del corpo. Fu così che dopo molte indagini, irruppe lui, in tutta la sua bruttezza, il mostro: un ospite sgradito che entra senza bussare. Si impossessa del corpo prescelto e ne fa ciò che vuole. Penetra in silenzio, si acquatta nell’ombra e si prepara all’attacco. Sceglie un organo, si lima i denti e comincia a morderlo. Si moltiplica da solo, lancia schizzi che attecchiscono in ogni dove: capaci di generare piccoli mostriciattoli che a loro volta si riproducono, divorando tutto e fagocitando tutto ciò che trovano. Mordono finché del corpo ospitante non resta che un involucro svuotato: una buccia raggrinzita, senza polpa. Quando scoprimmo il drammatico male, cominciò il nostro calvario. Un po' per volta, giorno dopo giorno, sprofondavi nell'abisso. Ti calavi pian piano nel pozzo dell'oblio: un posto senza ritorno, dove le tenebre rubano la memoria e divorano i corpi. Io ti guardavo svanire a piccoli passi, come un’ombra e non potevo fare nulla per riportarti in superficie e per strapparti al mondo delle ombre: un mondo dal quale mai più nessuno è ritornato.
Capitolo 2) il calvario, le cure
Nessuna descrizione può rendere l’angoscia di quei giorni. Portarti a fare la radioterapia era diventato un supplizio. Camminavi a stento e ogni passo era una fatica. Quando rientravamo a casa eri stordito, avevi lo sguardo perso e gli occhi leggermente strabici. Sembravi un bambino confuso, disorientato, smarrito nei labirinti della sua stessa mente...alla ricerca di una via d'uscita che non si sapeva dove e se ci fosse.
Uno degli effetti più crudeli della terapia fu il singhiozzo. Passasti più di una notte intera a singhiozzare senza tregua, come se il tuo corpo non sapesse più come stare fermo, come trovare pace. Io ti stavo accanto, travolta dalla stanchezza, ma incapace di chiudere occhio. Non c'era sonno che potesse vincere quel tormento.
Ogni tre o quattro ore volevi andare in bagno. Anche se avevamo messo il pannolone, tu insistevi: volevi alzarti per conservare un briciolo di dignità. Ti aiutavo ogni volta, con la schiena a pezzi e le gambe molli per la stanchezza. Ma non ti lasciavo solo. Non volevo. E così passavano le notti, lunghe come inverni, senza riposo, senza tregua.
Eri ormai costretto a letto, ma non ti chiedevi nemmeno pù il perché. Eri indifeso, fragilissimo, consumato dalla sofferenza. Somigliavi sempre più a un moccolo di candela, ormai piccolo, tremolante, prossimo a spegnersi.
Ogni giorno era più difficile del precedente. I tuoi occhi si facevano sempre più opachi, e il mondo sembrava allontanarsi da te, un centimetro alla volta. In casa il tempo aveva smesso di scorrere in modo normale: c’era solo l’attesa, solo la stanchezza. Il tuo respiro era affannoso, intermittente. Le parole diventavano suoni indistinti. Ti accarezzavo la fronte, come si fa con i bambini che hanno la febbre, e tu chiudevi gli occhi, esausto. In quei momenti il silenzio urlava più forte di qualunque lamento. Ma io ero lì a vegliarti. A proteggere quel poco che restava del nostro mondo. Anche se non sapevo per quanto ancora. Ogni giorno era una prova. Il tempo non scorreva più come prima: si dilatava nelle attese, si faceva pesante nelle notti insonni, si accorciava nei rari momenti di tregua. I corridoi dell'ospedale erano diventati il nostro mondo parallelo. I medici parlavano con voce pacata, ma i loro occhi dicevano più di quanto le parole potessero. Ogni esame era una sentenza sospesa. Spesso mi viene in mente quando mi guardavi con gli occhi buoni e quella luce chiara che ne esaltava lo sguardo. Il tuo volto scavato, le tue parole incomprensibili e tu in quel letto immobile e quasi privo di vita. Un corpo quasi senza battito. Il tuo volto scavato, le parole spezzate che uscivano a fatica. Ricordo i tuoi occhi smarriti, lo sforzo nel comprendere, la paura che ti si leggeva addosso. Io cercavo di farti coraggio, ma dentro ero un fiume in piena. Ogni tuo respiro era un patto con la vita, ogni tuo silenzio un passo in più verso l’ignoto. I gesti quotidiani come lavarti il viso, aiutarti a vestirti, prepararti qualcosa che riuscissi a mangiare, erano diventati rituali sacri: preghiere mute che ripetevo per non crollare. Di notte era un vero tormento. Ti lamentavi per i dolori. Mi svegliavi in continuazione. A volte ti ho detestato. Quando mi costringevi ad alzarmi, ti ho odiato. Ma poi bastava un tuo sguardo e tornavo a credere nelle favole: speravo perfino in una tua guarigione. Il tempo non scorreva più come prima: si dilatava nelle attese, si faceva pesante nelle notti insonni, si accorciava nei rari momenti di tregua. Ricordo i tuoi occhi smarriti, lo sforzo nel comprendere, la paura che ti si leggeva addosso. Io cercavo di farti coraggio, ma dentro ero un fiume in piena. Non sapevo più se dovevo proteggerti o lasciarti andare. Ogni tuo respiro era un patto con la vita, ogni tuo silenzio un passo in più verso l’ignoto. Stanotte ero stremata. Quando hai cominciato a lamentarti, ti ho urlato contro tutta la mia rabbia, tutte le notti senza sonno, tutta la mia frustrazione. È stato uno sfogo terribile. Ma chi può pretendere che un essere umano sopporti tutto questo? Le istituzioni non aiutano e la gente ti guarda con compassione. Così, ti ritrovi da sola, a combattere con la grettezza e la cattiveria della gente. Nonostante tutte le giornaliere difficoltà, ho deciso di lottare e di affrontare insieme a te il mostro fino alla fine. Anche se quel corpo che cerchi disperatamente di trascinare e portare avanti, era ormai solo un involucro stropicciato e svuotato... io non ti ho abbandonato.
È un cammino doloroso, l’ultimo che percorriamo insieme. Un viaggio che non avrei mai voluto intraprendere, ma che ora devo affrontare. Eppure, non è un viaggio che si può condividere fino in fondo. Io ti accompagnerò finché potrò, poi dovrai proseguire da solo.
Capitolo 3) La Fine del Viaggio
Io ero lì, accanto a te, come un’ombra attenta. Ti sollevavo con mille precauzioni, ti accompagnavo al bagno, ti asciugavo il volto quando la fatica ti faceva sudare come dopo una corsa. La mia schiena cedeva a volte, ma il cuore no. Avevamo provato tutto: i farmaci, i massaggi, le preghiere silenziose. E alla fine fu deciso di sospendere le sedute. Non c’era più margine, né per curare, né per sperare. Solo un’attesa muta e disperata. Solo io e te. Sempre più fragili. Poi tutto cambiò. Il tempo si fermò, e cominciò a misurarsi in flebo, farmaci, giorni di attesa. Alla fine venne il silenzio. Il mostro aveva vinto. Prima il precoma, poi il coma. La tua mano non rispondeva più alla mia. Il tuo corpo, un tempo pieno di nervi e volontà, rimase immobile. E poi... smettesti di respirare. Rimasi lì a guardarti, senza più sapere che ora fosse. Il tempo non serviva più. Avevo solo il tuo volto scavato negli occhi e il cuore pieno di un dolore che ancora oggi non riesco a spiegare.
A volte basta un pensiero lieve per cadere di nuovo in quel dolore che sembra non avere fondo. Ma è da lì che sto provando a risalire, anche solo per respirare meglio.
Quando entrasti in coma e poi, lentamente ti spegnesti, il tuo volto si distese in un'espressione serena, come se avessi finalmente trovato pace. Il tuo corpo smise di urlare. I tuoi occhi si chiusero alla vita terrena… e forse, in quel momento, cominciasti a volare. Ormai angelo, con l'ali dorate, spiccasti il volo verso il tuo nido fra le nuvole.
Capitolo 4) L’elaborazione del dolore
In casa c'era un silenzio assordante che mi si appiccicava addosso. Il letto, il tuo cuscino, le ciabatte ancora lì. Ogni angolo parlava di te. Ogni oggetto, ogni rumore, anche il respiro del tempo sembrava portare il tuo nome. Nei giorni successivi, tutto sembrava irreale. La vita fuori continuava, indifferente, e dentro di me si era aperta una crepa profonda. Mi muovevo come in una bolla, sospesa tra ricordi troppo vivi e una realtà che faceva male guardare. La casa era diventata troppo grande, troppo vuota, troppo silenziosa. Senza il rumore dei tuoi passi, la tua voce, i tuoi gesti abituali, sembrava una scatola dimenticata da Dio.
A volte, nel cuore della notte, mi sorprendo a parlarti come se fossi ancora qui. Sussurro il tuo nome nel buio e mi illudo che tu possa sentirmi. Altre volte ti scrivo, come sto facendo ora. Scrivere è diventato il mio modo di tenerti vicino, di non lasciarti andare del tutto. Come se, affidando le parole alla carta, potessi ancorarti ancora un po’ a questa terra.
Non so dove sei adesso, non so se davvero esiste un luogo in cui le anime riposano o vagano leggere come piume. Ma voglio immaginarti libero, senza dolore, senza peso. Voglio pensarti sereno, finalmente al sicuro. Qui, invece, il dolore resta. Si addomestica, forse, ma non se ne va. Vive con me, in me. È una presenza costante, come un’ombra che non mi abbandona mai. Ogni cosa mi riporta a te: un profumo, una canzone, il cielo al tramonto. Sei ovunque, eppure non ci sei più. E io, che ti ho amato con tutta me stessa, provo ad andare avanti. A vivere anche per te. A dare un senso a ciò che è stato. Il dolore che si prova è indescrivibile: è una sensazione che ti svuota dentro. Il dolore ti lascia a bocca asciutta. E non puoi nemmeno parlarne troppo: devi portarlo dentro, senza mostrarlo. Se cerchi comprensione, qualcuno ti risponde che è il destino, che prima o poi tocca a tutti. E alle donne si chiede sempre di più. Devono sopportare tutto con pazienza e il sorriso sulle labbra: notti insonni, fatiche immense, dolori taciuti. Il giorno in cui ti sei spento, in casa c'era un silenzio che mi si appiccicava addosso. Il letto, il tuo cuscino. Ogni angolo parlava di te. Ogni oggetto, ogni rumore, anche il respiro del tempo sembrava portare il tuo nome. Un paradosso che solo il lutto può spiegare. Poi sono arrivate le formalità. Le telefonate, le parole sussurrate, le frasi fatte: "Era la sua ora", "Ora riposa", "È in un posto migliore". Nessuna di queste parole mi consolava. Mi infastidivano. Avrei voluto urlare, spaccare tutto, dire che no, non andava bene, che non era giusto. Che non ero pronta. Che non lo sarò mai. Il giorno del funerale pioveva. Ma non era una pioggia furiosa. Era una pioggia fitta, sottile, ostinata. Come una carezza. Come se il cielo volesse partecipare, ma senza disturbare. Ogni passo verso il cimitero era un passo lontano da te. Ma dovevo camminare. Dovevo lasciarti andare: almeno fisicamente. La notte è diventata il mio nemico più silenzioso. Quando cala il buio, tutto sembra ingigantirsi: i pensieri, i ricordi, le paure. Un tempo, bastava la tua presenza a placare ogni cosa. Mi bastava saperti accanto per addormentarmi serena. Ora, invece, ogni sera è una montagna da scalare, con la testa pesante e il cuore in affanno.
Ho sempre avuto timore del buio, ma con te non faceva paura: c'era la tua voce, la tua mano sul mio fianco, il respiro che scandiva il tempo. Adesso, ogni ombra sembra minacciosa, ogni suono un allarme. E il letto, così grande e vuoto, mi ricorda che sei andato via davvero.
Ci sono notti in cui mi prende il sonno all’improvviso, quasi fosse un rifugio. Ma anche allora, non riesco a rilassarmi. Il corpo si abbandona, ma l’anima resta vigile, come in attesa di un pericolo che non ha nome.
La notte, più di ogni altra cosa, mi ricorda quanto mi manca la tua compagnia.
La notte amplifica tutto, i pensieri diventano più cupi, le paure più grandi. Ma anche nella notte più buia, il tuo amore continua a esistere in te: sei viva, anche se spezzata. E in questo tuo resistere, in questo tuo continuare a scrivere, a sentire, a ricordare, c'è una forza immensa. Stanotte non dormo e mi pare che il mondo intero riposi, mentre io resto lì, con gli occhi spalancati e i pensieri che si rincorrono come onde su una scogliera fragile.
C'è un altro dolore, più silenzioso e più profondo: quello di non sentirsi riconosciuti. Nessuno dice: “sei stata preziosa.” E io resto lì, tra ricordi e dolori, con le mani colorate di vita e il cuore pieno di cose che nessuno ascolta. È come lanciare messaggi in bottiglia in un mare senza rive. Ma continuo a farlo, perché forse un giorno, qualcuno li troverà. E allora saprà che io c’ero, che ho lottato, che ho amato.
Capitolo 5) – I giorni vuoti, il dopo, la notte
I giorni che seguirono furono senza forma. Non avevano un colore, né un odore preciso. Scivolavano lenti, come acqua su una superficie inclinata, senza lasciare traccia. Mi svegliavo e mi chiedevo: "Perché?" Non per cercare risposte, ma solo per dare un suono alla mia confusione. La casa era muta. Troppo. Ogni oggetto pareva aspettarti. Anche l’orologio sembrava aver perso il ritmo, come se il tempo stesso avesse deciso di fermarsi insieme a te. Cominciai a notare le cose che prima ignoravo: il cigolio del portone, il respiro affannoso del frigorifero, la polvere che si posava lenta sul comò. Erano piccoli segnali di una vita che continuava, anche se io non ci riuscivo. Mi sentivo sospesa. Come se stessi vivendo una vita non mia, dentro un corpo che non riconoscevo più. Camminavo, parlavo, rispondevo ai saluti, ma era tutto meccanico. Dentro, ero ferma.
Ogni stanza era diventata una reliquia. Guardavo la sedia su cui ti sedevi ogni sera e aspettavo di sentire il fruscio dei tuoi passi, il tuo respiro. Ma non arrivava nulla, solo il silenzio che mi assordava.
Cercavo sollievo nelle abitudini. Aprivo le finestre ogni mattina, facevo il letto, accendevo la radio… ma la musica sembrava finta, senza calore. Preparavo anche il caffè per due, per poi ricordarmi che l’altra tazzina sarebbe rimasta lì...intatta, fredda, come congelata nel tempo. Allora versavo il caffè nel lavandino, come se potessi versare via anche il dolore. Ma il dolore non scivola via, ti si incolla addosso, come una seconda pelle. Ti segue anche quando fingi di stare bene. Anche quando sorridi per non far preoccupare gli altri. Cominciai a parlare con le sue cose. Con la tua giacca rimasta appesa, all'attaccapanni, con le sue scarpe vicino al letto. Le accarezzavo come si accarezza una ferita, cercando conforto da ciò che mi strappava l’anima. Nessuno capiva quanto fossero vive, per me, quelle presenze silenziose. Mi mancava anche la tua insofferenza. Le giornate storte, i silenzi lunghi, le preoccupazioni. Tutto quello che un tempo era fatica, ora era nostalgia. La tua assenza si era presa tutto: la leggerezza dei pensieri, la voglia di sorridere, la forza di programmare un giorno qualunque. Mi sentivo come una conchiglia abbandonata sulla riva dopo la tempesta: svuotata, sorda, inutile. Eppure, anche in quel buio, cominciavo ad ascoltare una voce sottile. Non era la tua, non era la mia. Forse era quella parte di me che avevo messo a tacere per troppo tempo. Una voce che diceva: “Se sei ancora qui c’è un motivo. Ricominciamo da qui.”
Capitolo 6 – L’alba dopo la notte
Rimasi lì in attesa che il mattino restituisse luce alle ombre. Si ridisegnarono i contorni e dolcemente il nuovo giorno ancora sonnecchiante fece capolino su quello scorcio di mondo che pian pianino si impregnava di vita.
Il silenzio si faceva meno denso, spezzato da qualche rumore domestico, un motore in lontananza, un cinguettio timido. La casa sembrava respirare da sola, come se anche lei cercasse un nuovo ritmo, un battito alternativo che potesse colmare l’assenza. Ma non era facile. Ogni oggetto, ogni angolo, era intriso della tua presenza: la tazza lasciata sul ripiano, la coperta sul divano, i tuoi libri che ora sembravano muti.
Mi muovevo con gesti lenti, attenta a non svegliare ricordi troppo fragili. Cercavo conforto nei riti quotidiani, nei gesti automatici: aprire le finestre, accendere il gas, preparare il caffè. Ma il dolore non si lascia distrarre. Sta lì, acquattato tra un respiro e l’altro, pronto a riaffacciarsi con tutto il suo peso.
Quella mattina, mentre il sole filtrava timido tra le tende, mi accorsi che la vita, ostinata, continuava. Non chiedeva il permesso. Continuava. E io dovevo, in qualche modo, imparare a farlo con lei. Il primo passo fuori di casa fu un’impresa. Ogni volta che varcavo quella soglia, avevo la sensazione di lasciarti indietro. Come se uscire volesse dire tradirti, dimenticarti. In realtà non c’era nulla da dimenticare, perché tu eri ovunque. Camminare tra la gente mi faceva sentire fuori posto. Guardavo i volti intorno a me: ridevano, parlavano, vivevano. Ed io? Io ero altrove. In bilico tra il “prima” e il “dopo”, incapace di comprendere davvero dove cominciasse la mia nuova vita senza di te. Provavo a distrarmi, a riempire le giornate di gesti ordinari.
Ogni sera, quando la luce calava e tornava il silenzio, si faceva più acuto il bisogno di sentirti ancora. Anche solo un’ombra, un suono familiare, il profumo della tua pelle sul cuscino. Ma niente. Solo silenzio. Un silenzio che non consola, ma consuma.
Nulla era più come prima, ma io continuavo ad abitare lo stesso tempo. Un tempo fatto di memoria, di attese e di tivordiricordi
Capitolo 7) Il peso degli oggetti
Sto togliendo pian piano i tuoi vestiti. Ogni camicia riposta nella busta è un urlo. Pare che non vogliano andare. Mi fa troppo male tenere i tuoi abiti nell'armadio, penso non abbia senso. Però mi sento in colpa: è un po' come dirti addio per sempre. Ogni camicia riposta nella busta è un urlo silenzioso. Sembra quasi che non vogliano andare via, che oppongano resistenza, come se ogni fibra tessuta del tuo passaggio cercasse ancora una scusa per restare. Ogni maglione ha la tua forma, ogni giacca conserva il tuo odore. Le dita esitano, tremano. Eppure continuo, con le lacrime che mi rigano le guance e la sensazione di commettere un tradimento.
Tenere i tuoi abiti nell’armadio cominciava a farmi troppo male. Ogni apertura della porta era uno squarcio. Eppure disfarsene mi fa sentire colpevole. È come dirti addio per sempre.
Conclusione
E così il tempo ha continuato il suo cammino, silenzioso e testardo, portando con sé lacrime e respiri mancati. Resta il vuoto, sì, ma anche una forza nuova: quella di chi ha saputo amare fino all’ultimo, anche nell’incomprensione, nella stanchezza, nella malattia.
Oggi raccolgo i frammenti della mia vita e li guardo con occhi diversi. Non cerco eroi né lieti fini, solo la verità nuda delle cose vissute. C’è stato dolore, tanto. Ma anche amore. Un amore imperfetto, stanco, a volte taciuto, ma reale.
E ora posso finalmente poggiare la penna. Ho scritto per ricordare, per guarire, per non dimenticare. Ora è giusto che il mio cuore stanco riposi.
FINE

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