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Lunghissimi secondi

Cinque. Tante volte aveva preso l’ascensore ma quel giorno pareva più lento del solito, sembrava non arrivasse più. Quasi come passatempo teneva lo sguardo rivolto al pavimento, come per esaminare se l’impresa delle pulizie avesse fatto bene il suo lavoro. La risposta non tardò ad arrivare: la cenere dell’inquilino del 6 piano che si divertiva a fumare nell’ascensore, come per sfidare quei vicini che a ogni riunione condominiale gli facevano notare le sue mancanze, proprio quella giaceva sul suolo accanto a un mucchietto di polvere chiedendo la pietà di chiunque si fosse abbassato a degnare di uno sguardo ciò che solo aspettava di essere raccolto con una paletta e leggiadramente gettato in un lussuosissimo cestino della spazzatura. Quattro. Il cemento ingrigito, anzi annerito dal tempo e dalle ragnatele risaltava dietro il vetro satinato delle portine scorrevoli, le quali una volta arrivati al piano desiderato si aprivano automaticamente togliendo così alla fantasia il piacere di delineare i contorni di qualunque cosa si potesse intravedere avanti a sé. Anche lì lo sguardo si posò quasi ossessivamente sugli aloni e sulle decine di impronte di unto e sudore che non si potevano non notare nonostante il satinato tentasse di nasconderle. Uno sguardo veloce all’orologio digitale da polso, segnava mezzanotte, ovviamente era inutile guardarlo dal momento che invece di andare avanti si ostinava chissà per quale ragione a tornare indietro coi minuti, e cosa ancora più strana è perché lui si impuntasse ancora e sempre a portarselo ovunque gli pareva di andare. Tre. Stava impazzendo, erano ore che stava rinchiuso in quel maledetto ascensore, o almeno così gli
sembrava. Perfino quel suo stupido orologio si era impigrito tanto da aspettare un minuto per scorrere di un secondo, o così credeva. Pensava che se fosse rimasto ancora un poco là dentro sarebbe morto soffocato dall’ansia di mettere piede al piano terra. Eppure dovette aspettare molto più di “ancora un poco”, e davvero gli parve di cedere a una crisi di nervi, non ne aveva mai sofferto, ma questa volta …
Basta! Si accese la spia che segnalava il secondo piano e gli parve sul serio di non farcela. Due. Si guardò alle spalle, il grande specchio attaccato alla parete gli sembrò una consolazione. Si girò di scatto, si aggiustò il colletto della candida camicia che indossava quella mattina, non era abituato a indumenti classici e si era dimenticato di chiudere la giacca, fortunatamente ci fu lo specchio a ricordaglielo. La prima asola fu la più difficile, il bottone gli scappò di mano due o tre volte, le mani sudate dall’agitazione rendevano l’operazione ancora più complicata. Provava una strana sensazione, si rese conto di avere i brividi che gli percorrevano vertebra per vertebra la colonna della schiena, sentiva i peli rizzati dalla pelle d’oca, ma non volle controllarlo con gli occhi, non aveva il coraggio di alzare le maniche della camicia per la paura di stropicciare il cotone, doveva essere impeccabile. Si controllò la cravatta, almeno quella andava bene. Uno. D’improvviso ebbe come la sensazione d’aver dimenticato qualcosa, fece mente locale in una frazione di secondo, il timore crebbe sempre più. Ci pensò di nuovo. Guardò di sfuggita lo specchio e i suoi occhi castani si posarono sulla stringa della scarpa sinistra. Un sorriso. Come aveva potuto non accorgersene? Non era da lui. Infatti quella mattina non era lui. Non si sentiva lui, se stesso. Nel frattempo il laccio giaceva lì in attesa che si piegasse per fare il fiocco alla scarpa. Non ne era abituato. Gli pareva come arricciare i baffi di un gatto che per natura lisci sono. Nelle scarpe da tennis li aveva sempre buttati dentro ordinando ai suoi piedi di non fare un passo lasciandosi dietro le Timberland che tanto amava, le sue compagne d’avventura, costretto ora a tradirle per quelle scomodissime calzature lucidate che suo padre aveva messo pochissime volte, una delle quali il matrimonio con sua madre. Un altro sorriso, gli occhi sta volta gli brillarono ebbe fissa in mente l’immagine di una donna bellissima vestita di bianco che rideva e come il sole ogni raggio che emanava scaldava una porzione di cuore scongelando infiniti dolcissimi ricordi. Sollevò gli angoli della bocca per la terza volta. La stringa era di nuovo al suo posto, eppure, con un pizzico di delusione, notò che quella sensazione di vuoto non era ancora svanita. Tentò di ignorarla. Zero. Le portine dell’ascensore si aprirono, una luce fioca gli illuminò il viso, sottolineandone i bei lineamenti un po’ squadrati. Tanto s’era lagnato della lentezza di quell’aggeggio meccanico, e adesso paradossalmente desiderava che non fosse passato così in fretta quel suo attimo di tregua offerto gentilmente da quattro piani di appartamenti. Era una giornata piovosa, l’acqua veniva giù a catinelle. Le grigie nuvole nascondevano il sole, che da qualche parte, timidamente, si rifiutava di uscire. Chiuse gli occhi. Rise. Una risatina ironica e autocanzonatoria non era fuori luogo. Aveva lasciato su l’ombrello. Schiacciò il pulsante dell’ascensore, diede di nuovo uno sguardo al cielo dietro la vetrata dell’atrio, l’ascensore non era occupato. Entrò. Si richiuse dietro le sue spalle, nascondendolo completamente alla vista di chiunque fosse, per puro caso, passato di fronte alla porta d’ingresso del condominio in cui temporaneamente risiedeva. Tirò un respiro di sollievo, aveva altri 30 secondi a disposizione per pensare a quello che gli più gli sarebbe piaciuto.



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Opera scritta il 31/07/2015 - 14:51
Da Sara Toffaldano
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