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Nebbia

Mi sono messo davanti a un computer e ho provato a ricostruire l'orribile esperienza da me vissuta. Ne ho ricavato un certo sollievo, ma i fantasmi che assillano la mia mente non se ne sono andati. Sono consapevole di avere vissuto un’esperienza diabolica: per circa mezz'ora sono rimasto in balia di forze del tutto aliene.
Questa ricostruzione dei fatti è stata scritta da me a caldo, nello studiolo di Alessandro, custode della chiesetta delle Rose. L'ho stesa nel tardo pomeriggio, dopo essermi ripreso con un bicchiere di cognac e dopo avere scambiato alcune parole con quel brav'uomo.
Fatte le opportune rilevazioni, la polizia se ne era già andata.


La primavera stenta ad arrivare. Da nord est scendono correnti fredde che portano residue brinate mattutine e venti che tagliano la pelle. Una vegetazione ancora spoglia circonda la Casa per la Solidarietà, un’antica villa del Cinquecento, donata da Anselmo Lucianinni al movimento GIUDISO (Giustizia, Diritti e Solidarietà).
Il luogo dove sorge la Casa è ameno, fra gli uliveti, in una dolce campagna disseminata di cipressi e abitazioni sporadiche, vecchie e ben tenute, come se ne trovano fra le colline toscane. Si entra da un cancello che immette in un ampio spazio sterrato adibito a parcheggio. Un altro cancello laterale conduce nel cuore della proprietà, dove si estende un giardino pensile rettangolare. Su un lato corre un antico muraglione fiancheggiato da cipressi secolari; su quello opposto sorge la vecchia costruzione della limonaia. Gli altri due lati sono costituiti rispettivamente dalla facciata della Casa, le cui porte finestre introducono nel soggiorno e nella sala da pranzo, e da un muro più basso che fa da balaustra sull'uliveto che scende lungo il pendio erboso e va a confinare con un'intricata macchia di bosco.
La Casa per la Solidarietà è un edificio irregolare, severamente armonioso. Nel raggio di almeno quattrocento metri non si trova altra costruzione abitata, tranne la dimora del professor Gerardo Lucianinni, situata quasi a ridosso della limonaia.
All’interno, la Casa mantiene le caratteristiche originarie dell’antica villa di villeggiatura che era appartenuta, cinque secoli fa, ad un ramo dei Medici. Vi si trovano sale con ampi soffitti a volta e pavimenti a mosaico, uno scalone che porta ai piani superiori dove sono state ricavate le camere per gli ospiti, oltre a una bella sala che dà su una loggia panoramica con colonnine corinzie di pregevole fattura.
Mi trovo alla Casa per la Solidarietà da tre giorni per sostituire temporaneamente Luciano Antonelli, il responsabile. Ho dato la mia disponibilità per tenere aperta la sede in una settimana in cui non ci sarebbero stati utenti.
Fino a questa mattina, ho gustato la solitudine nella grande dimora, allietato da quello splendido giardino che fa intravedere un timido principio di fioritura. Mi sono goduto il silenzio, dedicandomi alla lettura, al riposo e a un po' di sano movimento all'aria aperta. Unici impegni sono stati quelli di rispondere al telefono, di prendere qualche appunto e di scrivere al computer. Certo, ho dovuto farmi anche da mangiare. Ma sono un tipo piuttosto sobrio: mi accontento di poco.
Tutto è cominciato verso le dieci del mattino.
Sulla strada che porta alla contrada Baruffi passavano solo sporadiche automobili. In quello stato di solitudine, mi sentivo concentrato. Intendevo finire la stesura di un progetto entro mezzogiorno. Poi avrei mangiato un boccone e avrei fatto una lunga passeggiata a piedi fino a Impruneta. La giornata infatti è stata splendida e invitava a muoversi all'aperto.
Lo studio in cui lavoravo non gode di una grande luce. Tuttavia mi sono accorto subito che il debole chiarore si era ulteriormente abbassato.
Mi sono alzato e ho guardato fuori.
Tutto appariva normale: vedevo la collina cosparsa di ulivi e macchie di boscaglia con le due casupole solitarie alle quali fanno da guardia due coppie di cipressi. La luce del sole rendeva allegri quei dintorni.
Eppure il locale dove mi trovavo sembrava sprofondato in una penombra crepuscolare, come quella che si può notare alla sera, prima che venga in mente di accendere la lampada. Ho di nuovo guardato fuori, notando una strana nebbiolina Formava una specie di barriera tra il perimetro della casa e la profondità del paesaggio.
In un primo momento ho pensato che si trattasse del fumo di un falò che qualcuno doveva avere acceso nelle immediate vicinanze. Sono uscito dallo studio, ho attraversato il salone adiacente e sono andato ad affacciarmi alla porta finestra che dà sul giardino pensile. Già prima di avvicinarmi alla porta finestra mi ero reso conto che qualcosa di strano si stava verificando. E quando ho potuto guardare fuori, ho rivisto quel fenomeno, che ora appariva inquietante: tutto il giardino era immerso in una nebbia grigiastra che riduceva sensibilmente la visibilità. Infatti non riuscivo a scorgere le piante e le aiuole oltre la distanza di una quindicina di metri. Il cielo, naturalmente, si era oscurato per effetto della nebbia e tutta la casa sembrava avvolta in una specie di bruma autunnale. E poi, cosa davvero angosciante, avvertivo la sensazione che oltre quell'involucro fuligginoso continuasse a risplendere il sole di una bella e fredda mattina primaverile.
Il silenzio era diventato totale. La casa e il giardino sembravano sospesi.
Dapprima ho pensato che fosse il progressivo senso di malessere a infondermi quel terrore che quasi mi ha fatto uscire di senno. Adesso posso dire che la paura non nasceva dentro di me, ma veniva provocata da quella nebbia che aveva avvolto la Casa per la Solidarietà.
Mi sono aggirato un po' nei locali antichi, immersi nel silenzio più profondo, illuminati assai scarsamente da quel chiarore lattiginoso che filtrava dalle finestre. Ma tutto sembrava normale: né un rumore, né uno scricchiolio potevano turbare la pace e la tranquillità di quegli interni ampi e austeri.
In quel momento mi sono domandato se fosse stato opportuno condividere con altri quell’esperienza. L’abitazione più vicina era quella del professor Lucianinni. È anziano ma lavora per parecchie ore al giorno davanti a una montagna di libri, carte sparse, battendo instancabilmente sui tasti di una vecchia Remington. Sì, insomma, è uno studioso di etnologia, di comportamenti umani e di linguaggio. L’avevo visto solo un paio di volte, sempre nel giardinetto adiacente la sua casa. Per raggiungerlo, dovevo uscire dalla porticina sul retro e percorrere non più di cinquanta passi lungo la stradina che porta alla contrada.
È stato in quel momento che ho udito quel suono sibilante. Proveniva da oltre la cortina di nebbia, almeno così mi era parso. Assomigliava al suono emesso da una vipera pronta a colpire. Come spinto da una molla, sono andato a sedermi nel salone. Poi di nuovo alla porta finestra che dà sul giardino.
Il sibilo era cessato, l'aria era completamente immobile.
Sono rimasto per un lungo momento a scrutare nella nebbia. La visibilità si era ulteriormente ridotta, non si vedevano più i cipressi che spuntavano oltre il muraglione, anch'esso diventato invisibile. A malapena si riusciva a intravedere il pesante cancello laterale che immetteva nello spazio adiacente, dove era parcheggiata la mia auto. Devo dire che l'istinto di mettermi al volante e andarmene via era molto forte. Ma le chiavi si trovavano di sopra, in camera.
Mi aspettavo di riudire quel suono orribile. Invece tutto rimaneva sospeso in un silenzio ovattato, reso ancora più spettrale da quella densa cortina impenetrabile e avvolgente.
Poi, mentre stavo per chiudere la porta finestra e rientrare nel locale, mi è sembrato di scorgere qualcosa che si muoveva nella nebbia. Ho aguzzato la vista, in preda al terrore. Dovevano essere i due grandi cespugli sempreverdi che crescevano al centro delle due aiuole antistanti la facciata della casa.
Sono salito in camera a prendere le chiavi della macchia.
Ritornato alla porta finestra che dà sul giardino, il sangue mi si è ghiacciato nelle vene. Nella nebbia si vedevano non due ma quattro sagome che si muovevano in maniera scomposta, pur rimanendo, così mi è sembrato, ferme nello stesso posto. Non erano i cespugli di sempreverde. Sembravano forme umane, che si torcevano su se stesse movendo lunghe braccia disarticolate. La nebbia fitta, ovviamente, impediva di scorgere i precisi contorni di quelle figure che ondeggiavano in modo terrificante, come fossero dei dannati nelle fiamme dell'inferno. Cosa ancora più allucinante, sembravano avvicinarsi lentamente alla facciata della Casa per la Solidarietà, ma senza camminare.
Mi sono messo a correre verso il cancello che però si è chiuso da solo, sbattendo. Allora sono tornato sui miei passi, lanciando occhiate terrorizzate alle sagome spettrali che emergevano sempre più dalla nebbia.
Non mi rimaneva altro che recarmi dal professore. Sentivo la necessità di condividere con qualcuno quella paurosa esperienza. Ma passando vicino al telefono, ho pensato a una cosa che non mi era ancora venuta in mente: mettermi in contatto, a voce, con il mondo esterno.
Niente. L'apparecchio era muto, come se avessero tagliato i fili.
Allora ho provato con il cellulare. Stesso risultato.
Ero del tutto isolato, in quella casa antica immersa in una nebbia orribile e assurda, popolata da strane figure demoniache che si avvicinavano sempre più.
Quindi non ho perso altro tempo. Ho infilato la porticina sul retro e sono corso, nella nebbia, verso l’abitazione del professore.
Il portoncino era aperto Sono entrato con circospezione, senza chiedere permesso.
L'interno era nella penombra e uno sgradevole odore stagnante feriva l'olfatto.
Guidato dal frenetico ticchettio di una macchina per scrivere, ho cercato lo studio. Sono entrato.
La scena rimarrà sempre impressa nella mia mente.
Il professore era immobile, seduto davanti alla vecchia Remington. Ma le braccia pendevano ai suoi fianchi.
Sullo scrittoio, la macchina scriveva da sola.
Mi sono avvicinato.
I tasti percuotevano il foglio in continuazione, riproducendo la seguente parola:

AIBBEN

Il foglio stava per finire e qualcosa mi diceva che quando la macchina avesse scritto l'ultima parola, sarebbe successa una catastrofe.
Ho allungato una mano tremante e con uno scatto ho fatto ruotare il rullo. Ho estratto il foglio che, sfuggendomi di mano, è svolazzato verso la finestra spalancata e risucchiato fuori, nella nebbia.
È avvenuta, allora, una cosa incredibile.
La luce del sole è filtrata attraverso i vetri dell'imposta e ha illuminato il volto del vecchio professore.
Era morto, gli occhi sbarrati, come se avessero visto la cosa più orrenda dell'universo.


Ad Alessandro, custode della chiesetta delle Rose, non ho raccontato esattamente quello che ho messo sulla carta. Né a lui, né alla polizia. Non mi avrebbero creduto, e magari mi avrebbero preso per pazzo. Ho chiesto invece ad Alessandro se avesse visto quella strana nebbia che aveva avvolto la Casa per la Solidarietà. Lui mi ha guardato in modo strano, ed io non ho insistito.
La polizia ha detto che il professor Lucianinni è morto d'infarto mentre scriveva a macchina. Infatti, secondo la ricostruzione, stava sfilando un foglio dalla vecchia Remington (foglio che è stato effettivamente trovato ai piedi della finestra spalancata), quando doveva essergli sfuggito di mano nel momento in cui il cuore gli esplodeva in petto.
Il foglio non è bianco. Vi è scritto in alto a sinistra:

Egregio Sig. Antonelli,
mi sento costretto a comunicarle...


Il signor Antonelli, come molti sanno, è il Responsabile della Casa per la Solidarietà, attualmente assente.
Secondo la polizia, il professor Lucianinni aveva tolto il foglio dalla macchina per cominciare la lettera in altro modo, ma l'attimo fatale aveva stroncato per sempre la sua azione.
Che cosa voleva comunicare a Luciano Antonelli, mio carissimo amico e pezzo grosso del Movimento?
Adesso tutti penseranno che il professore avesse voluto inviare l'ennesima lettera per contestare al movimento GIUDISO quello che non aveva mai digerito: la donazione, fatta da suo padre Anselmo, di quella stupenda villa cinquecentesca adagiata tra le verdi colline fiorentine.
Ma sono andate veramente così le cose?




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Opera scritta il 07/02/2016 - 19:11
Da Giuseppe Novellino
Letta n.1212 volte.
Voto:
su 4 votanti


Commenti


Questo Racconto, che mi ero quai perso, rivela la consueta maestria dell'autore. Quì sono descritte davvero bene le ambientazioni, che esaltano l'atmosfera stile horror,come pure gli aspetti psicologici.. Molto piaciuto

Francesco Gentile 10/02/2016 - 09:42

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Grazie per i commenti.
@ Gennarino - La lunghezza è un problema per i racconti pubblicati sui forum. Comunque, l'idea di pubblicare a puntate è venuta anche a me. Bisognerebbe consultare la direzione. Ciao!

Giuseppe Novellino 08/02/2016 - 12:56

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L'ennesima pezzo di bravura riscontrato in tutti gli element. La particolareggiata e precisa descrizione dei luoghi e dei personaggi, unita alla ben costruita atmosfera di paura in un finale sorprendente di zombistica cura degli interessi. Complimenti.

salvo bonafè 08/02/2016 - 08:58

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Sono le 7 e 33...ho appena finito di leggere questo bel racconto, per altro scritto in maniera impeccabile, punteggiatura compresa, e noto che la mia è la 22esima lettura. nessun commento. Io una spiegazione ce l'ho ed è la lunghezza del racconto che inteso in senso classico sarebbe un corto tipico alla Antov Checov, per dire, mentre sul web è considerato lungo. perchédico questo' Per il semplice fatto che se i lettori fossero arrivati alla fine, la parte migliore del brano a mio avviso, avrebbero dato 5 stelle a vrebbero commentato positivamente. Ora mi chiedo: io ho un racconto lungo almeno 3 volte questo, come dovrò fare? Postarlo in 4 puntate? mah, tu che ne pensi Giuseppe? un caro saluto...

Gennarino Ammore 08/02/2016 - 07:39

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