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Una commedia che non fa più ridere

È sera. La musica nell’aria sfida la voce delle persone che si riversano in strada e ne riempiono ogni angolo con la stessa fluidità con cui la birra riempie i loro bicchieri in plastica. Un gruppo di ragazzi sfida i passanti a calciare il pallone dentro una delle tre sagome scavate sull’intonaco di un palazzo piuttosto vecchio. Due dei fori sono posizionati ai lati, quasi rasoterra. Il terzo forma un triangolo coi primi due, è leggermente più largo e non è lontano da una grossa finestra. Con un po’ di fortuna qualcuno fa centro, altri scagliano la sfera pericolosamente vicino al finestrone che, con apprensione, osserva la scena imperando dall’alto. Gli applausi, comunque, arrivano per tutti.
Poco più in là, un quintetto di giovani suona pezzi che forse i grandi della musica contemporanea non apprezzerebbero. Mi faccio largo con fatica tra la calca per osservare meglio l’inusuale disposizione degli strumenti, che mi incuriosisce. Il pubblico sembra non ascoltare. Un ragazzo alto e biondo, dalla pettinatura piuttosto stravagante, si avvicina per scambiare due parole con uno dei musicisti nel bel mezzo dell’esecuzione, poi indietreggia ridendo, mostrando ai presenti denti bianchi la cui lucentezza risalta nelle luci della sera. Mi fermo dietro di lui. Sul palchetto, il cantante posa il microfono e si muove imitando un robot, dirigendosi a scatti verso il chitarrista alle prese con un assolo. Lo seguo con lo sguardo e noto che sulla sinistra c’è un lungo tavolo in legno, sormontato da una scritta a caratteri cubitali ben visibili: BIER 3 EURO.
Mi incammino verso il tavolo e mi metto in fila. Proprio in quel momento inizia una canzone orecchiabile, scritta almeno quarant’anni fa, che riconosco già dalle prime note. A quanto pare non sono l’unico: come cani affamati a cui viene lanciato un osso da scarnire, i più giovani fra gli spettatori smettono improvvisamente di chiacchierare e iniziano a ballare, a dimenarsi, a gridare. Decido di gustarmi la birra in pace allontanandomi un po’ da quella musica diventata d’un tratto troppo rumorosa. Camminando dieci passi, mi trovo vicino a una ragazza che deve avere qualche anno più di me. Mi chiedo se abbiamo preso da bere allo stesso banco, dato che i nostri bicchieri in plastica pavoneggiano la medesima appariscente sigla: BRN. Lei deve aver notato la stessa cosa, perché un istante dopo mi guarda e sorride. I nostri sguardi si incrociano. Ricambio con una smorfia fuggevole e, forse per imbarazzo, la liquido in un momento voltandomi verso i musicisti. Bevo un sorso, cercando nel bicchiere la più banale delle scuse. Torno a guardarla, lei sorride ancora.
“È italiano”, sento dire in perfetto tedesco da un mio amico, che nel frattempo le era apparso accanto. Capisco che la conosceva già, così mi avvicino ai due con una naturalezza che rasenta la spavalderia. Con la pretesa di voler provare la nostra birra, il mio amico si confonde velocemente nella folla urlante fino a esserne inghiottito. “Quindi sei italiano”, mi fa lei. “Credevo fossi greco”. Greco, e perché? “Perché non parli molto… Gli italiani parlano molto”. Mi metto a ridere, divertito e un po’ confuso allo stesso tempo. Beh, sono italiano, le dico. Poi la guardo, stregato dai suoi occhi a mandorla, e le chiedo di dov’è. “Sono di qui”, fa lei. Assumo un’aria incredula, che muta presto in un’espressione di sfida, poi la interrogo facendole notare i suoi occhi. “Sì, credo di avere origini asiatiche”. Si ferma, poi aggiunge in tono sicuro “ma sono tedesca”.
È l’esordio di una conversazione che dura anni, decenni. O almeno il tempo sembra trascorrere così lento nella danza delle nostre voci, che indisturbate si perdono in mezzo a tante altre fra le note della notte. È quasi ora di andare. Domani c’è lo spettacolo a teatro, lei lo sa. Il primo atto della commedia è alle quattro. La invito a venire, lei mi guarda negli occhi e mi dice che potrà solo a partire dal quarto atto. “Alle otto, dunque?” faccio io, alzando lo sguardo e fingendo di fare un breve calcolo aiutandomi con le dita. Poco dopo ci separiamo.
L’indomani, un po’ in anticipo, mi avvio verso il teatro. Vicino all’ingresso, una lieve pioggia mi rinfresca le idee ricordandomi perché sono qui, facendomi forza mentre aspetto l’apertura della sala grande. Assisto al primo atto della commedia, che trovo divertente. Il secondo non mi interessa già più. Dal terzo inizio a guardarmi intorno, cercando con occhiate veloci tra il pubblico la tedesca dagli occhi a mandorla. È proprio questo ossimoro che mi conquista, mormoro piano per paura di disturbare il distinto signore seduto alla mia destra. Sono attratto da questo elemento fuori contesto, che mi affascina come farebbe un manufatto di antiche civiltà lontane esposto in un’ampia teca di un museo moderno.
Mentre con lo sguardo assente osservo gli attori che, abbracciati, s’inchinano a più riprese ringraziando il pubblico quasi come da copione, il sipario si chiude per poi riaprirsi. Cambiano i costumi, la platea applaude di nuovo. Inizia il quarto atto. La tedesca dagli occhi a mandorla non c’è.
È una commedia che non fa più ridere.



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Opera scritta il 06/07/2018 - 11:56
Da George Pinsons
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