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La marcia santa - parte II

Il giorno dopo, che era la vigilia della Santa Marcia, uscii di casa come consueto per andare al lavoro, e di ritorno decisi che era ora di prendere un po’ d’aria. Faceva freddo, ma con l’aiuto degli ultimi timidi raggi di sole di ottobre, non lo era ancora abbastanza per impedirmi di fare una passeggiata tra i boschi intorno a casa.
Sulla via principali incontrai dei vicini che in giardino allestivano i preparativi per il giorno dopo. Avrebbero avuto gente a cena per la prima domenica di festa. Mi invitarono, come di consueto, e declinai. Passai oltre e vidi altri intenti a preparare casa per la festa di domani, da che intuii che il giorno dopo ogni famiglia avrebbe avuto ospiti. C’era un’atmosfera festosa per tutta la via, e si propagava fin dentro il bosco, gli uccellini canticchiavano e gli scoiattoli si rincorrevano. Due di questi si azzuffarono tra la polvere del sentiero fino a quando uno non morse l’altro. Mi parve un comportamento bizzarro. Al rumore dei miei passi sempre più vicini, gli scoiattoli fecero per scappare, ma quello ferito sanguinava e non riuscii a rialzarsi. Mi abbassai per raccoglierlo, ma d’un tratto vidi tornare dietro l’altro scoiattolo che si portò via il compagno tra le fauci e se lo sbranò dietro ciuffi d’erba, sotto il mio sguardo inorridito. Rimasi sconcertato. La sensazione di inquietudine si acuì ulteriormente quando, poco dopo, scorsi quelle che parevano le dita di una mano, stese a terra dietro gli alberi più avanti lungo il sentiero. Mi avvicinai e lo vidi: un corpo senza vita, supino, col dorso della mano rivolto sopra il capo e mutilato dell’altro braccio. Era un uomo, indossava un jeans e una camicia verde a quadri di una nota marca, uguale a quella che aveva Federico e che io volevo cestinargli. La stessa che aveva quella notte. Non sapevo cosa fare, corsi indietro, ripercorsi il sentiero fino alla via di casa per chiamare aiuto, cercavo di urlare ma correvo così forte che dovetti fermarmi e riprendere fiato. Urlai, urlai forte. I vicini mi guardavano esterrefatti, ma restavano immobili. Mi fissavano, e più mi fissavano e più urlavo, e più urlavano e più se ne stavano fermi a guardarmi allucinati. C’è un cadavere nel bosco, piangevo e urlavo, vestito come… vestito come… tra le urla e il pianto non si capiva bene cosa farneticassi, e loro, ancora, fissi, con gli occhi incollati su di me. Vi prego urlavo, vi prego. Ma perché non fate nulla? Cementificati in uno stupore inspiegabile, fermi, con gli strumenti che stavano utilizzando un attimo prima, non battevano gli occhi e non dicevano una parola. La gogna della diversità, quello stigma sociale che di tanto in tanto colpisce un malcapitato che manifesti una qualche deviazione di qualsiasi tipo rispetto alla norma comunemente nota, era caduta sulla mia testa, ed erano i loro occhi adesi su di me, che intanto ero preda delle convulsioni. Non serviva a nulla starsene lì ad aspettare che si schiodassero da quell’immobilità, mi precipitai a casa, presi il telefono e chiamai Carlo sbagliando tre quattro volte il numero sulla tastiera tanta era la fretta per lo shock. Arrivò cinque minuti dopo sul suo furgoncino, e lo condussi al bosco dove avevo trovato il corpo. Il sole era già sceso dietro i colli a ovest, e filtrava poco tra i rami fitti degli alberi ancora in foglie nonostante la stagione. Non c’era nessun corpo, non trovammo nulla. Eppure, era qui, neanche dieci minuti fa. Era qui. Ne sono sicuro. Lo descrissi, era un uomo, alto, mezz’età, gli mancava un braccio, con quella camicia a quadri, quella verde che indossava anche Federico quella notte, chi è Federico? Non ha importanza. Mi riaccompagnò a casa, e nel tragitto si fermò di tanto in tanto di fronte alle case dei vicini a tranquillizzarli e a dir loro che avrebbe pensato lui a me, perché ero in uno stato di forte agitazione per via di ciò che era accaduto. I vicini preoccupati dissero che sarebbero rimasti a disposizione per ogni evenienza. Era strano sentire quella dolcezza – quasi artefatta – nella loro voce, adesso, dopo che se ne erano rimasti immobili senza aiutarmi. Nel secchio di casa della vicina, forse si chiamava Mangione, che rimaneva a destra del bosco, mi parve di riconoscere quel verde… ma forse era solo suggestione. Carlo mi portò a casa, mi fece sdraiare sul divano, mi fece bere e chiese se avessi fame. Io di fame non avevo nemmeno un po’, frugai nel comodino della camera da letto in cerca degli ansiolitici che avevo iniziato a prendere da quando era morto Federico.
Poi venni lasciato solo, in santa pace, perché così volevo, dopo le mille preoccupazioni e accortezze di Carlo. Io volevo stare da solo: tutte le ferite si erano riaperte. Avrei dovuto cercare compagnia, starmene a chiacchierare con qualcuno, cercare conforto nella voce di un amico, ma non volevo nessuno. Ero da solo e mi sarei dovuto bastare per sempre. Mi coricai, e mentre un fascio di luce, un faro del furgone, fece una fugace irruzione nella finestra, sentii Carlo parlare con la signora Mangione, è diverso da noi, diceva, è diverso da tutti noi; ce ne siamo accorti, rispondeva quella, con una voce lenta, lenta e impastata come… come di sangue.


Il giorno dopo non stavo meglio, e quando uscii di casa avevo un forte mal di testa. Novembre faceva il suo ingresso in una bruma che poco rassomigliava a quei raggi – seppure timidi – di sole che avevano illuminato il cielo il giorno prima. La prima domenica del mese era arrivata e, in netto contrasto con quell’aria funerea e grave che appesantiva il cielo, i vicini di casa scoppiavano di euforia e fremevano per i preparativi. Passai davanti le loro case collezionando di cancello in cancello ogni singolo sguardo dei membri di ciascuna famiglia. Qualcuno era già sul punto di dirigersi al cimitero, ma al mio passaggio spense l’entusiasmo e si fermò, mentre muoveva la mano per salutarmi. La signora Mangione mi indirizzò un sorriso che nascondeva un mondo alla rovescia, e il marito si mise a fissarmi, mentre intanto sentivo le famiglie delle case vicine parlottare a bassa voce come un nugolo di mosche imbizzarrite. La mia presenza quella mattina aveva fatto passare in secondo ordine la marcia sacra e aveva gelato, come un vento invernale, l’aria di festa con cui si era risvegliato il paese. Un dettaglio catturò la mia attenzione, o meglio, il ricordo di un dettaglio, qualcosa a cui sul momento non avevo dato importanza, ma che riavvolgendo il nastro della memoria breve, tornava a fare breccia e imporsi su tutto il resto: il marito della signora Mangione indossava una camicia. Una camicia verde a quadri. Quella camicia verde a quadri. Tornai indietro di qualche passo, ma i signori Mangione erano già in macchina diretti verso il cimitero. Decisi che non avrei dato importanza al bailamme di idee che imperversavano la mia mente. Mi incamminai e lungo la strada per il cimitero, che distava qualche chilometro, molte macchine si fermarono per offrirmi un passaggio e, dato che c’erano, anche la colazione. Altri inviti, prima di allora a nessuno era venuto in mente di invitarmi a colazione, ero quasi sul punto di cedere per premiare l’inventiva, ma l’umore non mi assisteva. Volevo starmene da solo, farmi due, tre, anche dieci chilometri, nel caso, verso il cimitero, in santa pace, godermi la festa di paese, del paese che tanto aveva voluto accogliermi e che tanto amava la mia diversità. Lungo la strada incontrai tanti altri compaesani, chi in macchina, chi a piedi come me, tutti vestiti per l’occasione, di tutto punto, qualcuno, specie i più piccoli, indossavano dei lunghi fazzoletti bianchi lungo il collo, che immaginavo fossero accessori tradizionali, altri stringevano tra le mani degli strumenti che non riuscivo a identificare, ma supponevo fossero gli oggetti da lasciare nella dimora del defunto. Mentre li osservavo, loro non mancavano di osservare me di ricambio, anche di additarmi, notavo, con meno pudicizia e meno candore. Mamma, è il diverso, sussurravano in bambini con un tono di disprezzo che avevano dovuto mutuare dai genitori. I vecchietti nelle macchine mi lanciavano occhiate in tralice cariche di sdegno, che celavano però un guizzo a cui non sapevo dare un nome. Anche quando si fermavano per offrirmi un passaggio, pareva che lo facessero non per cortesia, quanto per un tornaconto che non sapevo intuire. La salita lungo il cimitero era lunga, e la strada si faceva sempre più stretta. La gente in macchina cercava parcheggio lungo i bordi del campo santo e si sistemava il vestito facendo dello specchietto retrovisore della macchina il miglior giudice della propria eleganza, e infine si incamminava verso il cancello spalancato all’ingresso. Sulla colonna all’entrata era posto un piccolo contenitore in legno, dalla forma macabra, da cui ognuno di loro raccoglieva un oggetto metallico simile a quello che avevano in mano gli altri lungo la via. Io non presi nulla e ciò contribuì ad aumentare il coro di voci che sentivo da dietro, e gli indici puntati come milioni di lame, e gli occhi strabuzzati. Il diverso, eccolo qui, è venuto tra noi. Il candore abituale era sparito, ora c’era un astio di cui non mi capacitavo. Vennero a salutarmi in molti, ma le intenzioni non erano cristalline, erano come le acque di un fiume esondato il cui fondo è coperto da una coltre di fango. Presagivo un terrore, ma era vago, non capivo. Provai di nuovo la sensazione che ebbi la prima volta che raccontai la mia sessualità ai miei compagni di scuola, quel tacito giudizio degli occhi, l’etichetta che da allora in poi avrebbe affermato la mia diversità su tutti. E ricordai il giorno della mia laurea magistrale, le espressioni dei parenti, terza media al massimo, che per salvaguardare le loro scelte e il loro percorsi, affossavano il mio, perché era diverso dal loro, era uno mero sforzo mentale, non come i loro figli invece, campioni di fatiche, indefessi lavoratori. Ero sempre stato considerato strano, sempre, tutta la vita, e non era mai stato un peso, mi dicevo. Ora lo era, e lo erano d’un tratto anche tutte le altre volte che mi ero sentito così, altro tra tutti. Ne avevo fatto il mio vanto, anche quando ero arrivato in paese, ci avevo marciato per quanto avevo potuto, mi sentivo la più splendente stella del firmamento, l’uomo del momento, le chiacchiere mi gratificavano perché erano il tentativo degli altri di coprire lo scarto tra me e loro, che era netto, ed era spesso, e non lo avrebbero mai colmato, perché non mi avrebbero mai conosciuto, non lo avrei permesso, non volevo, non meno di quanto non lo volessero loro, del resto, che erano tutti inviti e moine, ma per sfoggio, per forma; di sapere chi fossi, da dove venissi, cosa mi rendesse diverso veramente, tutto ciò non gli interessava neanche un po’. E ora era un macigno, questa sofferta diversità, era un macigno che mi faceva piombare in basso, perché esserlo in mezzo a pochi è un lusso, ma in mezzo a una folla, è una caccia all’uomo. E fu ironico che io avessi prodotto proprio quella metafora, ripensando agli avvenimenti successivi. Da lontano scorsi Carlo, che mi fece un cenno con il capo per accertarsi che andasse tutto bene, io risposi con le labbra storte per fargli capire che no, non andava tutto bene: nessuno lì pareva preoccuparsi che appena il giorno prima fosse morto un uomo e io avessi visto il cadavere tra gli alberi nel bosco. Nessuno. Nessuno tranne Carlo, che tra tutti gli omologati era il più diverso. Tutto quello che parevano saper fare al momento era gustarsi l’attesa dell’evento più importante dell’anno, rivolgermi accuse malvagie e pettegolezzi fantasiosi, e puntare in alto quegli oggetti metallici appuntiti. Carlo svettava sul palchetto allestito nel mezzo del cimitero, accanto a lui sedevano il sindaco e l’assessore, mentre uno stuolo di tecnici dietro il palco si assicurava che il microfono e le casse funzionassero a dovere. Era mezzogiorno, ed era passata un’ora abbondante da quando avevo varcato la soglia del cimitero, che nel frattempo si era riempito. Sopra di noi gravitava un cielo plumbeo e spirava un vento grigio che mi faceva rimpiangere di essere vestito così leggero. Gli altri non parevano patire il freddo tanta era l’euforia. Brandivano alti quei metalli, puntati in cielo, quasi a sfregio a Dio, mentre sopra di noi caricava uno sfogo che si sarebbe liberato a pochi minuti. Carlo in qualità di organizzatore dell’evento prese la parola, diede il benvenuto a tutti quanti, e tranquillizzò la folla che se anche fosse venuto a piovere, ciò non avrebbe rovinato il momento più atteso dell’anno, niente si sarebbe frapposto tra loro e i loro amati defunti. In mezzo alla folla scorsi il signor Mangione con indosso la camicia verde a quadri, quella di Federico, quella dell’uomo nel bosco. Due lacrime inondarono gli occhi e se mi fosse fregato qualcosa in quel momento di cosa pensassero, avrei pregato per un po’ di pioggia per nascondere la mia tristezza.
Era la prima edizione da anni, continuò Carlo, che ospitava un nuovo partecipante, e lo disse guardando me, invitando tutti a rendermi partecipe all’euforia della festa poiché non potevo avere alcun defunto tra le mura del loro cimitero. Raccolsi gli sguardi di tutti, nessuno escluso, persino il neonato in grembo a quella signora in prima fila, e il signor Mangione con la sua camicia sporca di peccato. Bando alle ciance, concluse Carlo, e si inizi la Marcia Santa! Neanche il tempo di pronunciare l’ultima sillaba che uno scintillio di metallo vibrò in alto, fece così tanta luce che le notai per la prima vera volta, solo allora mi accorsi, solo allora capii: non erano aste di metallo, né punteruoli, né bacchette, erano forchette. Gli abitanti del paese senza tanti complimenti si misero quattro zampe e iniziarono a scavare la terra intorno alle tombe, chi con entrambi le mani, chi con l’ausilio delle forchette, che non dovevano rovinarsi però, dicevano le voci: avevano altri scopi. C’era un grande rimestare la terra tutt’intorno, guaiti e latrati, come di animali; intere zolle venivano lanciate, e se colpivano la testa di qualcuno, tanto meglio, i parenti erano pronti a fiondarcisi sopra e ad aprire loro il torace con le punte della forchetta; qualcuno più agguerrito e più in forza degli altri aveva già dissotterrato il cadavere, dopo aver scavato e scavato; si sentiva strappare a morsi, lembi di pelle e ossa saltare in alto, i bambini si ripulivano il viso col tovagliolo che avevano legato intorno al collo, mentre il sangue rappreso colava lungo le labbra. Seppure alcuni si mantenessero bene, altri cadaveri erano già ridotti a poco più che sabbia e polvere, ma ciò non sembrava né turbare né bloccare l’impeto dei paesani che facevano di quei morti il condimento per altri morti più freschi. Masticavano, strappavano coi denti, infilzavano, qualcun altro guaiva, tutto in una frenesia senza limite. Chi si dimenticava di lasciare l’oggetto di scambio nella tomba o se lo rintascava, veniva redarguito dal capo famiglia, che faceva anche in modo che ognuno avesse la porzione adatta di cadavere. Carlo in alto sul palco ammirava quasi estasiato, e di tanto in tanto incoraggiava con esortazioni tonanti affinché si completasse il sacro banchetto. Lo spettacolo a cui stavo assistendo mi impietriva le gambe impedendomi la fuga, ma non potevo rimanere lì, lo sapevo, una volta che avessero terminato il banchetto di famiglia, si sarebbero fiondati su di me: carne freschissima, premio in palio, lauta ricompensa. Dovevo fuggire, dovevo darmela da quel luogo infame. Cercando di non farmi notare, mi diressi il cancello. Fortuna volle che nessuno ebbe in mente di chiuderlo, e dato che non mi ero allontanato troppo dall’entrata, impiegai poco tempo a scappare via lungo la discesa che mi avrebbe riportato a casa. Mi misi a correre a perdifiato, veloce, lungo il sentiero che appena un’ora prima avevo percorso lentamente, in compagnia di tutti quegli sguardi e tutte quelle voci. Ora mi era tutto chiaro, l’interesse, la curiosità morbosa, il cadavere nel bosco, quei ripetuti inviti a cena: volevano mettermi alla prova. Se fossi stato uno di loro, sarei stato parte della loro comunità, altrimenti sarei stato parte delle loro interiora. Una sottile differenza che ne avrebbe segnata un’altra, di differenza: quella tra la morte e la vita. Dovevo andarmene, dovevo andarmene via. Maledissi la scelta di non aver preso la macchina, poi quella di essere venuto lì, poi maledissi la vita, il fato, e Federico, che mi aveva lasciato solo. Correndo raggiunsi la porta di casa, senza nemmeno accorgermi che il portone principale era aperto. Aprii casa, raccattai velocemente chiavi, documenti, portafogli, chiavi della macchina e intanto facevo avanti e indietro con un malloppo di angoscia sedimentata in gola per verificare che non mi servisse altro. Mi fiondai in camera da letto, pensai di fare una piccola valigia per ogni evenienza, ma non avevo più tempo, si erano già accorti della mia assenza, sicuramente, mi stavano cercando, me li immaginavo tutti lì, un corteo di cannibali invasati, o di necrofagi, mi corressi, ma non era quello il momento di disquisizioni ontologiche. Feci per uscire, ma tornai in camera da letto, calmarmi mi sarebbe servito, pensai, e inghiottii due ansiolitici, me ne sarebbe servita una scatola intera dopo quello che avevo visto, ma due erano meglio di niente. Stavolta ero sul punto di abbandonare la casa per sempre, davvero, aprii la porta:
dove credi di andare? Una voce mi sorprese, era Carlo. Negli occhi un gelo azzurro e lucido, la bocca sporca di sangue, avrei voluto invitarti a cena, disse sorridendo, avevo un altro impegno, risposi io, infilandomi sotto il suo braccio per fuggire verso la macchina, ma Carlo era forte, mi strattonò, mi buttò a terra, mi prese per il collo e mi passo la sua lingua calda lungo la guancia, che si macchiò di sangue e brandelli non masticati. Mi portò dentro casa, mi obbligò a sedermi, e smorzò la violenza che aveva mostra finora. Nessuno mi ha raggiunto, mi tranquillizzò, solo il sindaco, ma puoi immaginare che fine abbia fatto, aggiunse mostrando i denti. Ti ho messo gli occhi addosso sin dall’inizio, continuò, fresco, giovane, bello, fiero … saresti stato un ottimo acquisto, o un ottimo pasto. In entrambi i casi, qualcosa di buono. Tremavo dalle punte alla cima, quello che fate è orrendo, ebbi l’ingenua forza di dire, molti di noi non accettano la separazione dai propri cari, disse, con tutta la normalità del mondo, e in più… è una scelta ecosostenibile, ed economica, aggiunse, renditi conto di quanti vantaggi. Ci guardammo negli occhi, lui nei miei disperati e io nei suoi pieni di una follia lucidissima. Ora, disse, pesando bene le parole con un tono di uno che sapeva benissimo di avere la situazione in mano, hai solo due opzioni.
Quali? chiesi io, credendo che si fosse aperto uno spiraglio nella coltre nera.
Lui rise.




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Opera scritta il 07/11/2021 - 11:53
Da Matih Bobek
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