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CAVALCARE UN RAGGIO DI LUCE

Chiude gli occhi.
Aspetta di morire.
Allunga le gambe e incrocia le caviglie, posizione che la fa rilassare.
“Non mi devo rilassare” pensa, “devo soltanto morire.”
Adelina è scomoda, sospira, ma rimane sulla bergère comperata per allattare quel figlio che aveva deciso, alla fine, di non presentarsi al loro appuntamento dopo nove mesi di attesa. E due anni dopo, quando era nata Valeria, Adelina non le aveva offerto il seno accoccolata lì, per paura che anche la piccola decidesse di abbandonarla.
Adesso è lei ad andarsene, ma non può ingurgitare niente per accelerare il passaggio o lascerebbe a sua figlia un’eredità disdicevole. Un trapasso naturale, la fine delle funzioni vitali, se il cuore collabora. Non lo può comandare, nemmeno per evitarle le delusioni che Alfonso le avrebbe inferto in futuro il cuore le era stato di supporto.
Lo aveva visto, Alfonso, l’ultimo giorno del Carnevale del 1953, mentre passeggiavano, lei con sua mamma e nonna Sofia e lui con due amici. Un incontrarsi, una scaramuccia di sguardi e per Adelina il mondo si era oscurato tranne l’alone di luce e incanto che gli aveva creato attorno.
Cinque minuti. Un salto all’interno del torace la scuote. Attende il tonfo cardiaco, la discesa verso il baratro dove il sangue, ne è certa, sta terminando la sua corsa.
“Eccomi pronta per l’Inferno.”
Lasciare questo mondo. Gioire nel porre fine alla sensazione lacerante e distruttiva di infilare un fallimento dopo l’altro. Smettere di pensare per realizzare quella vacuità mentale sinonimo di leggerezza.
Cinque minuti. Una vita intera. Onde leggere le sollevano il seno in modo impercettibile se non fosse per quell’aria che entra attraverso le narici e scende fin nei polmoni. Aria che la invade, che la possiede, che porta dentro l’esterno in un ciclo che richiama l’Eternità.
Adelina con il pensiero si ottura il naso, serra le labbra, arresta il respiro. Si impone un blocco al basso ventre. Deve trattenere tutto giù, in fondo. Ce la può fare, in tutta la sua vita ha segregato laggiù nell’oscurità le umiliazioni alle quali suo marito l’ha condannata. Pressato l’odio fin da quando era soltanto rabbia verso quel fedifrago che aveva conquistato tutte. Prima, durante e dopo di lei. Con il matrimonio se n’era andata la libertà personale preceduta da quella di genere. Alfonso poteva. Lei no. Ma lo amava. Fino alla fine, fino a decidere di seguirlo nella tomba, sua dimora da una settimana.
Immobile, il respiro strozzato, deve pazientare. Ne è avvezza, dopo anni di attesa affinché ritorni a lei, alla loro unione coniugale fra un viaggio e l’altro in letti altrui.
Cinque minuti. Un raggio del tramonto si incunea fra due lame di legno. La picchia sul viso, fa sentire la sua presenza, il suo scherno verso chi vuole rinunciare alla vita. La infastidisce con il tepore del pomeriggio che l’ha raggiunta nel suo scrigno di pre-morte.
Due minuti. La guancia palpita. Adelina sigilla i denti, irrigidisce i muscoli pronta a incontrare la morsa della fine.
Gocce di linfa amara sbucano da serrande abbassate, chiuse su un presente impossibile da affrontare senza Alfonso. Anima imprigionata da un amore che annienta, anima rubata al conforto del Divino per seguire un’esistenza priva di calore.
Valeria.
Valeria.
Valeria.
Il sorriso di sua figlia la raggiunge e la abbaglia. Forse per lei vale la pena risorgere e ricominciare a vivere dimenticando di voler ritornare subito alla Casa del Padre.
Valeria. Sua figlia.
Un attimo, un altro bagliore di luce. Adelina apre gli occhi e sceglie. La Vita.



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Opera scritta il 24/06/2015 - 09:11
Da Magia 66
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