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Il morto del paese

Quando avevo l’età che non porta rancore, ogni volta che si verificava un funesto naturale nel mio paese, chiedevo a chi pensassi ne sapesse più di me; che cosa fosse la morte, perché si moriva, ma non ottenendo risposte idonee a colmare la mia poco conoscenza in materia di vita, lasciavo correre e permettevo che la mia curiosità tanto invadente perisse; lasciandomi la speranza di poter attingere un giorno, al cumulo dei miei dubbiosi pensieri. Un giorno come tanti, assorto com’ero nella mia candida immaginazione, affacciato alla finestra di casa, vidi passare un gruppo di donne di una certa età. Il loro l’abbigliamento dai colori cupi e malinconici, emanava un sinistro alone di angoscia. Incuriosito per lo strano pellegrinaggio, aguzzai la vista con la speranza di poter carpire, e capire perché un gruppo di attempate donzelle muovesse convinte presso una destinazione tutta da definire. Guardando meglio, nella mischia potei riconoscere mia zia, la sorella di mio padre, alla quale invogliato dal grado di parentela, chiesi con poco garbo e tanta invadenza dove si stessero recando; a malapena mi volse lo sguardo, e con tono che sembrava più un rimprovero che una risposta, mi disse che dovevano andare a rendere omaggio a una persona defunta. Così con il permesso dei miei genitori, e sotto la rigorosa responsabilità di mia zia, mi sono unito al corteo, essendo l'unico essere in erba nel gruppo, la mia presenza saltava all’occhio, e sotto i curiosi sguardi di uomini maturi e donne disinteressate all’evento luttuoso, dovetti mio malgrado sopportare le ironiche battute poco lusinghiere, affine della mia strana decisione, da parte dei miei agguerriti coetanei. Giunti sul posto, la zia con tono autoritario mi disse di entrare e di stare vicino a lei e di fare silenzio. Tutta l’arcata del portone era marcata ai lati da stoffe in velluto di colore viola misto al rosso, mentre poco più a lato si poteva notare l’affissione di un manifesto bordato di nero, con l’effige di un volto in forma ovale raffigurante una figura aggraziata, dalle mani giunte. L’epigrafo in questione recava anche la scritta delle generalità del defunto, e la lista dei parenti che ne davano il triste annuncio. Passando sotto a quell’addobbo funesto venni pervaso da un’aura angosciosa e malinconia, in quell'attimo la mia sola figura di riferimento era la zia, che vedendo il mio aspetto pallido in volto, impacciato nell’osare, mi strinse la mano rassicurandomi di non aver paura di nulla. Superato l'impatto iniziale, ci incamminammo verso la stanza addobbata per l’occasione attraversando un affollato cortile, dove alcune comunelle, contemplando i loro trascorsi, promettendosi a vicenda, che si sarebbero rivisti poi in situazioni migliori. Giunti all’entrata della stanza, anch’essa agghindata ad ogni lato da funesti recisi, la mia attenzione venne carpita come un orso dal miele, da delle donne vestite di nero, che, come fossero in simbiosi, si alternavano tra preghiere ammonitrici e pianti stonati (di sicuro erano delle parenti del defunto). Puntando lo sguardo poi ai piedi del letto, una vistosa combinazione floreale a mo’ di cuscino, guarnita da una fascia di colore ghiaccio, recava una frase di cordoglio scritta in nero; da parte di un gruppo di amici di una gioventù ormai andata. Il tempo, sebbene fosse trascorso in minima parte, sembrava lungo e interminabile; al punto che chiesi a mia zia a che ora saremmo andati via da quel lugubre luogo di pianto.
La zia mi diete uno sguardo ammonitore, e con un rimprovero quasi in sottofondo, sibilando come fanno i serpenti, mi disse che dovevo stare zitto e che quando era il momento lo sapeva lei. A quel punto rassegnandomi, continuai a spaziare con uno sguardo attonito, in una stanza colma di lamenti che avrei fatto volentieri a meno di sentire, e sagome vestite di nero che volentieri avrei fatto a meno di vedere. Non potei non notare alcune persone che in fila uno alla volta, con rispettoso silenzio, accostandosi al defunto, gli rendevano omaggio toccandolo sulla fronte, e facendosi il segna della croce poi. Fatto questo, guadagnavano l'uscita per cedere posto ad un’altra persona. La tristezza regnava indiscussa, sovrana, in quella stanza carica di dolore. In quell'istante calò su di me un velo di angoscia, avviluppandomi come un vestito di velluto in un giorno di mezza estate. Mentre fantasticavo, confuso da tanti pensieri, sentii una mano che mi strattonava in modo sicuro e deciso, senza esitazioni; per un attimo, ma solo il temo di un istante lasciandomi coinvolgere dall’atmosfera mi sono spaventato pensando chissà cosa, era mia zia che forse aveva capito che stavo per cedere all’angoscia del momento che mi faceva cenno di uscire, e che per attirare la mia attenzione mi ha strattonato. era venuto il tempo di andare. Una volta usciti dalla stanza prima e dal portone poi, ci incamminammo verso casa; e del folto gruppetto di persone ch’eravamo, non rimase che un numero di poche unita, dato che nella fase di ritorto, abbiamo imboccato la strada che conduceva alle loro abitazioni. Non dimenticherò mai quella giornata intrinseca di sensazioni indescrivibili, seppure quest’ultime sono state molto crude, ma sono servite a farmi capire in parte che la morte fa parte della vita; forse le risposte che io cercavo, e che chiedevo con tanto accanimento, non erano poi tanto tanto lontane, forse erano lì in quella stanza, in mezzo a quella gente, e io le avevo trovate; perché per trovare delle risposte bisogna viverle, e per viverle bisogna sapere aspettare.



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Opera scritta il 11/11/2021 - 10:52
Da CIRILLO CARMINE
Letta n.380 volte.
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Commenti


Bella e molto significative le ultime frasi..bravissimo

Anna Cenni 19/11/2021 - 16:10

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