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Il cinque maggio

L’esame di Diritto Privato, per noi studenti di scienze politiche, era lo scoglio più arduo del primo anno. Si narrava di persone che lo avevano dato per sei volte, e la volpe argentata, così soprannominata la titolare della cattedra, negarli il voto per le prime cinque, facendoli rimandare anche la discussione della tesi.


Quando la mattina mi presentai in facoltà, eravamo in due in lista. Bene, pensai, il dente sarebbe stato tolto subito, senza agonizzare. In fondo era il primo tentativo, assaggiavo la pedana, diciamo.
Il primo si accomoda e alle domande della volpe risponde, fin da subito, alla grandissima. Domande alle quali non avrei che saputo dare che risposte striminzite, ma forse neanche quelle.
Che fosse meglio alzarsi e con un bel gesto dichiarare che mi sarei presentato il mese dopo? Sarebbe stata la cosa logica anche perché se non si era preparati a sufficienza non soltanto non si passava l’esame, ma si rischiava, se si era proprio scarsi, di venire rimandati di due sessioni.
C’era da perderci altri tre mesi.


Il gioco quindi era pericoloso, però, pensandoci bene, considerai che le domande che avevano fatto al primo studente non sarebbero state le mie, magari avrei deciso sul momento se preferire, se avessi visto la brutta parata, una specie di abbandono dopo la prima ripresa; un bianco asciugamano da tirare per una resa indolore.
Il primo studente era davvero bravo, citava sentenze come niente, ed io annichilivo al pensiero dello stacco che si sarebbe notato con il mio linguaggio raffazzonato.
“Trenta e lode” disse orgogliosa la volpe alla fine dell’esame, quasi in estasi mistico-giuridica. Era un voto che non si vedeva spesso dare!


Ecco, era venuto il mio momento dopo le calde strette di mano al collega. Mi avvicinai titubante, si sentiva l’aria elettrizzata della commissione. Mi cominciarono a fare le domande. Cominciai a orientarmi, oltretutto vedevo che l’aria era favorevole, stavo sfruttando la scia del campione che mi aveva tirato la volata, mi era concesso un linguaggio non proprio “aderenziale e desemplicizzato”. Stavo facendo la figura di chi non usa termini tecnici per alleggerire il discorso e non perché non gli viene. Gli andavano bene cose che altre volte avevano sentenziato la fine del colloquio. Le espressioni di dubbio si limitavano a qualche leggero tentennamento del capo argentato, ma sempre con un’espressione facciale benevola, disponibile ad integrare quello che dicevo ripassandomi la palla per continuare la prolusione. Il momento andava sfruttato, e lo feci alla grande: un colpo di fortuna con la C maiuscola!


“Beh, via, non proprio senza incertezze, ma il voto glielo diamo: venticinque.” – sentenziò la volpe.


“E il giunge, e tiene un premio ch’era follia sperar”.




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Racconto scritto il 05/10/2020 - 08:17
Da Glauco Ballantini
Letta n.823 volte.
Voto:
su 2 votanti


Commenti


Ottimo come sempre.
La fortuna con la C maiuscola è tutto dire!
Un saluto

Loris Marcato 06/10/2020 - 22:47

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