È quello dell’indifferenza.
Quello che scende nelle strade, nelle piazze,
tra le voci spente di chi ha visto e ha scelto di voltarsi dall’altra parte.
Paolo non voleva essere un eroe.
Voleva solo fermare una rissa, riportare la calma,
fare quello che ogni uomo giusto dovrebbe fare:
scegliere la pace, quando intorno c’è solo caos.
Ma a Palermo, come in troppe città d’Italia,
la pace sembra un lusso.
Si muore per uno sguardo, per una parola,
perché qualcuno non sa più distinguere la vita dalla rabbia.
E allora la domanda non è più “perché è successo”,
ma “perché lasciamo che succeda ancora”.
Perché ogni giorno, in ogni angolo del Paese,
un ragazzo cade, e con lui cade un pezzo di futuro.
Abbiamo perso la connessione con la realtà.
Con l’amore. Con il rispetto.
Abbiamo trasformato la vita in un campo di battaglia
dove vincere è più importante che capire.
Ma la vita non si vince.
La vita si rispetta.
Si difende. Si protegge.
E lo Stato deve farlo, adesso.
Non domani, non “dopo averne parlato”.
Adesso.
Perché ogni secondo di silenzio è un colpo sparato in più.
Paolo, come tanti altri,
non deve diventare un nome in un titolo di giornale.
Deve essere un segnale.
Un faro acceso nella notte di un Paese
che ha dimenticato che la giustizia non è una parola,
ma un dovere.
E allora, in tuo nome, Paolo,
chiediamo una sola cosa:
che l’Italia torni ad amare i suoi figli,
a proteggerli, a difenderli.
Che ogni madre possa aspettare il ritorno del proprio figlio,
non piangerlo davanti a una lapide.
Perché non può esserci pace
fino a quando la vita non tornerà sacra.
Fino a quando lo Stato non tornerà presente.
Fino a quando la gente non tornerà umana.
Per Paolo, e per tutti i ragazzi
che non hanno smesso di credere nella bontà,
anche quando il mondo ha smesso di crederci.

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